Presi come siamo dalla quotidianità, gli avvenimenti importanti ci passano sotto il naso, ci diciamo che domani approfondirò e poi ce ne dimentichiamo. Tra gli argomenti importanti c'è sicuramente il rapporto tra le potenze che contano, con tutti i singoli risvolti: i trattati, le trattative diplomatiche più o meno segrete, gli impegni assunti ma non rispettati, le piccole guerre.
Sergio Romano, per via dell'aver fatto l'ambasciatore italiano prima presso la NATO e poi a Mosca (dall'85 all'89), può essere considerato un esperto oltre che un testimone.
Il libro è piccolo, ma molto denso di informazioni e di contenuti ed è ben descritto dal titolo; tutto sommato la situazione è stata più tranquilla dalla fine della II guerra mondiale alla rivoluzione dell'89 perché gli arsenali nucleari e l'esistenza di due superpotenze in conflitto-competizione, facevano sì che ci si muovesse con cautela.
A questo proposito, nei primi capitoli, Romano ci racconta dello svolgimento di alcune crisi pesanti che furono risolte dal buon senso della deterrenza: la rivoluzione ungherese associata alla crisi di Suez, lo status di Vienna e di Berlino, la primavera di Praga e l'invasione della Cecoslovacchia, l'atto di Helsinky e i trattati sulla non proliferazione. Ma ancora: la guerra di Corea, la crisi di Cuba, il Vietnam, l'Afghanistan, la guerra dei missili (SS20). Si faceva la voce grossa ma poi alla fine si costruiva l'accordo e si andava avanti.
Poi è venuta la fine del comunismo e Romano ce la racconta bene, soprattutto per quel che riguarda la situazione in URSS e la vicenda di Gorbačëv (i problemi interni al PCUS, la dissoluzione del sistema, il diverso collocarsi delle ex repubbliche).
Siamo neanche a metà libro e Romano inizia la narrazione del dopo: degli errori, delle mosse superficiali, della incapacità dell'Occidente di essere lungimirante. La Jugoslavia in dissoluzione, la Nato che diventa strumento di guerra quando è venuto meno il tema che l'aveva fatta esistere. Gli USA iniziano a comportarsi da potenza indispensabile.
L’organizzazione era stata creata nel 1950 per difendere l’Europa contro la minaccia sovietica. Ma fu impiegata soltanto dopo la fine della Guerra fredda contro un Paese che nei decenni precedenti non era appartenuto ad alcuno dei due campi e aveva contribuito, con il suo «non impegno», alla pace del continente. Fu la guerra di tutti i Paesi che facevano parte dell’Alleanza, ma il comandante supremo era americano e rispondeva delle sue scelte strategiche soltanto al presidente degli Stati Uniti. Il Consiglio militare dell’Alleanza si riuniva ogni mattina per scegliere i bersagli che sarebbero stati colpiti nelle incursioni aeree delle ore successive. Ma anche quella collegialità finì per infastidire gli americani e fu abolita nelle altre «guerre della Nato» combattute da allora.
Dopo essere stata per più di quarant’anni il necessario contrappeso del Patto di Varsavia, l’organizzazione stava diventando l’uniforme che gli americani indossano per dare una parvenza internazionalista ai loro disegni politici e strategici. Quando fu chiaro che non tutti i suoi membri avrebbero sempre risposto all’appello di Washington, fu inventata la coalition of the willing, la coalizione dei volonterosi, vale a dire il permesso di «marcare visita» per coloro che non si sentivano coinvolti in una particolare vicenda.
Inizia l'era delle guerre e della punizione degli stati canaglia mentre la Russia è alle prese con la rinascita dell'Islam interno e con la questione Ucraina su cui l'Occidente viola esplicitamente gli accordi a suo tempo presi tra Bush e Gorbačëv. La politica estera statunitense, ma in parte anche quella delle potenze europee, venuto a mancare il contrappeso, inizia ad essere fortemente condizionata dalla politica interna:
L’allargamento della Nato era esattamente ciò che gli Stati Uniti, mentre si trattava il problema della unificazione tedesca, avevano assicurato di non desiderare. Ma se l’America aveva vinto la guerra perché avrebbe dovuto tenere conto dei desideri di uno Stato sconfitto? La prospettiva di nuove commesse piaceva anche a quei deputati e senatori che avevano industrie militari nei loro collegi. E non potevano spiacere al presidente, infine, i voti con cui le lobby nazionali lo avrebbero ringraziato per avere esaudito i loro desideri. La Guerra fredda aveva avuto un grande merito: aveva costretto i due campi a evitare pericolose provocazioni, a comportarsi responsabilmente. La fine della Guerra fredda, per quanto concerne gli Stati Uniti, sancì invece la priorità della politica interna sulla politica estera. La profezia di Eisenhower nell’ultimo messaggio ai suoi connazionali («diffidate del complesso militare industriale») divenne ancora più attuale di quanto fosse stata nel momento in cui era stata pronunciata.
A fine libro, chiedendosi cosa accadrà, Romano pone il problema dell'Europa,
Non abbiamo alcun interesse a sperare che un ritorno alla Guerra fredda restituisca al presidente degli Stati Uniti i poteri perduti. Non abbiamo alcun interesse ad auspicare un mondo in cui la minaccia nucleare sia il solo fattore che costringe le maggiori potenze a dare prova di prudenza e buon senso. Ma non possiamo riporre speranze nella riforma delle Nazioni Unite, un esercizio che rimetterebbe in discussione il diritto di veto al Consiglio di sicurezza e che nessuno dei «grandi» è disposto ad accettare. E siamo troppo laici, infine, per credere che le parole di un pontefice romano, per quanto intelligente e accattivante, possano avere una decisiva influenza sul modo in cui gli Stati perseguono sulla scena internazionale interessi difficilmente conciliabili. Ma le inevitabili crisi dei prossimi anni saranno ancora più gravi se i Paesi dell’Unione Europea saranno costretti a subirle senza essere in grado di far pesare il proprio punto di vista. Dopo le rivolte arabe e lo scoppio della crisi ucraina abbiamo frontiere «calde» che non possono più essere lasciate alle risorse e qualche volta, purtroppo, ai capricci dei singoli Stati confinanti. La frontiera con la Russia e quella del Mediterraneo con gli Stati arabi dell’Africa del Nord e del Levante sono frontiere comuni. Ma la politica estera europea è ancora quasi sempre un confuso coro di stonate iniziative individuali.
Sergio Romano
Editore: Longanesi Collana: Le spade Anno edizione: 2015 Pagine: 132