Dopo una notte insonne tra Vespa e Mentana (da anni mi rifiutavo di guardare i talk show, limitandomi alla lettura dei giornali, ma l’eccezionalità del momento ha prevalso), anch’io, come Claudio Cereda, ho pensato: ecco la III Repubblica!
La I fu quella della guerra fredda, della ricostruzione e del boom economico, di una ribellione modernizzante a trazione ormai usurata (si, parlo del periodo di cui ricorre il cinquantenario), del terrorismo e del compromesso storico incompiuto.
La II tentò inutilmente di nascere con il (non abbastanza) robusto tentativo craxiano e le provocazioni irrituali di Cossiga. Fu determinata poi dalla caduta del socialismo reale e dal gattopardismo occhettiano (cambiare nome per non cambiar null’altro) che aprì necessariamente la strada a Silvio Berlusconi, perché la politica non conosce vuoti e l’elettorato, allora come oggi, si riversa e si affolla dove può. Da quel fatidico novantaquattresimo anno del secolo scorso il problema, a sinistra, fu liberarsi di Berlusconi, col combinato disposto di allegre serate e magistrati militanti. La necessità di ripensarsi, non solo davanti al crollo del passato comunista, ma al rischio di estinzione additato dal progressivo declino dei diversi partiti socialisti europei, restò in secondo piano.
Come il referendum senza sbocco di Segni mise fine alla I repubblica, il risultato elettorale di domenica scorsa chiude 25 anni di inutile alternanza, rivoluzioni liberali mancate all’appello da destra e da sinistra, politica condotta con altri mezzi. Lo scenario è evidente: Salvini ha fatto uscire la Lega da una subalternità di fatto, legata alle radici territoriali e ad un programma federalista senza interlocutori al centro e al sud. Il M5S ha conquistato la maggioranza relativa con un disegno istituzionale inquietante (il vincolo di mandato, il partito eterodiretto) ed un’innovazione non contestabile in quella parte della tecnica politica che riguarda il rapporto con l’elettorato e la formazione dell’opinione pubblica. Ecco i due contendenti che monopolizzeranno la nuova repubblica come Dc e Pci la I. E ci porteranno chissà dove.
A meno che ci diamo una mossa e mettiamo rapidamente insieme tutti, ma proprio tutti, coloro i quali vedono nell’Europa un orizzonte di libertà, prosperità e pace, pensano che la globalizzazione sia stata anche la più grande opportunità offerta ai popoli del terzo mondo per uscire dalla miseria e l’immigrazione sia il frutto di un fenomeno di proporzioni bibliche che va governato (e indica anche che, quando bambini, donne e uomini rischiano la vita per venire da noi, forse qui non ce la passiamo tanto male).
Ma gli ostacoli sono giganteschi. Il primo è la debolezza della cultura liberale in Italia. Il liberalismo se la passa maluccio anche in altre parti del mondo, indebolito da qualche eccesso di laissez-faire e dalla reazione uguale e contraria del trumpismo e della Brexit. Né mi pare giovi al mondo liberale l’eccesso di correttezza politica che non a torto induce repulsione tra chi, tutti i giorni, va a sbattere contro gli hard factsdella vita quotidiana. Eppure, è la cultura liberale, che va temperata con i (diversi) umanesimi socialista e cristiano, il perno attorno al quale dare voce al mondo composito di chi desidera vivere in un mondo aperto e globale.
L’eredità azionista ha guardato troppo allo stato e all’idea di usare la sinistra comunista come un tram per le proprie idee. E temo che l’altro tentativo in questa direzione, quello della sinistra amendoliana, abbia compiuto il suo lascito, a tempo ormai scaduto, con la presidenza di Giorgio Napolitano. Sull’altro fronte, non ha certo giovato il sistematico allontanamento degli intellettuali di formazione liberale che hanno inizialmente sostenuto Berlusconi. Così, il 33% costituito dall’orribile, improbabile inciucio, rispecchia mestamente il suo carattere minoritario nel 3% del compianto Valerio Zanone.
Ecco, quindi, per stare ai temi di formazione di buona parte di noi che abbiamo il privilegio di leggere e scrivere su questo blog, un bel tema gramsciano da rileggere e affrontare di petto. Insieme ad altri due: il sud e l’educazione.
Il sud è, forse, l’elemento che, nel breve periodo, ci darà un po’ di tregua per riordinare le idee e le forze. La mappa d’Italia che ha campeggiato in tv ci dice che esiste un ostacolo – come si diceva una volta – strutturale alla saldatura tra i due populismi, uno vincolato al mandato elettorale assistenzialista, l’altro che non può mettere a rischio il suo radicamento in un nord produttivo e produttivista (c’è però un comune interesse, immediato, a gettare a terra il pugile stordito, indebolendo il Pd o accompagnandolo nell’autodistruzione… e già cantano le sirene).
Ma il problema di un (non?) meridionalismo non assistenziale, che sia investimento con ritorno misurabile e non spesa corrente è una questione irrisolta che vale la vita o la morte di questo paese come paese europeo.
L’educazione mi sembra un tema ancora più centrale. E, talvolta, la cultura operaia e contadina di fine ‘800 mi pare più adeguata a spiegare e abitare quei mondi di quanto la moderna cultura di massa ci aiuti nella complessità contemporanea.
Più il mondo è regolato dalle tecniche e più il discorso politico, per essere semplice, diviene il discorso del bar.Ma c’è un punto che viene prima di tutto (mi pare di averne già scritto in un’altra vita, a metà degli anni ’70) ed è l’interruzione del circuito virtuoso tra la famiglia e la scuola, con la contrapposizione tra il mondo degli affetti dal quale l’autorità è stata soppressa e il mondo ostile del lavoro e dello stato, dove l’autorità sopravvive come mera tecnica di dominio. In questo schema, uno vale uno e la libertà di pensiero consiste nel continuo rigenerarsi delle superstizioni contemporanee.
Dunque, davanti a chi si sente a disagio in quest’Italia che da fondatrice d’Europa diviene la nuova speranza dei populismi altrove (temporaneamente) battuti si apre un vasto programma di ricostruzione, finalmente al di fuori delle culture e dei contenitori della I e della II Repubblica. C’è anche una riflessione da fare sul proprio impegno personale. Per parte mia, sono rimasto alla finestra per quasi 30 anni, faticando a riconoscermi in qualcosa o qualcuno e pensando di aver già fatto qualche danno. Ma oggi ci sto ripensando.
Dal Blog di Claudio Cerada