ebook di Fulvio Romano

lunedì 1 settembre 2014

"Sblocca-Trivelle": Basilicata a rischio petrolio e metano?

LA STAMPA

Economia

Ecco l’Italia delle trivelle, che può

raddoppiare la produzione di petrolio

Il premier Renzi: “Ce n’è tanto in Basilicata, sarebbe assurdo rinunciare”

Il decreto Sblocca-Italia aspira anche a essere un decreto Sblocca-Trivelle: come rivelato ieri da La Stampa, toglie alle Regioni il potere di veto sulla ricerca e sulla trivellazione di pozzi di petrolio e di metano. La Strategia energetica nazionale (Sen) vuole più che raddoppiare entro il 2020 l’estrazione di idrocarburi in Italia, fino a 24 milioni di barili equivalente all’anno (l’unità di misura che omogeneizza petrolio e gas naturale). Si ipotizzano «investimenti per 15 miliardi di euro, 25 mila nuovi posti di lavoro e un risparmio sulla fattura energetica nazionale di 5 miliardi all’anno». Inoltre è atteso un miliardo di euro extra di introiti fiscali annui.

Una manna, in teoria. Ma altro petrolio e altro metano da sfruttare in Italia ci sono? Gli esperti dicono di sì, mentre resta in sospeso la volontà di trivellare. Ieri Matteo Renzi ha ribattuto alla richiesta di cambiare il decreto arrivata da Legambiente, che teme gravi rischi: «Abbiamo preso provvedimenti molto seri - ha detto il presidente del Consiglio -. Se c’è il petrolio in Basilicata (la Regione più promettente, ndr) sarebbe assurdo, in questo momento, rinunciarvi».

Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia, giustifica le speranze: «In Italia c’è una dorsale del petrolio e del gas che parte da Novara e poi si distende lungo l’Appennino fino in fondo alla Calabria e prosegue in Sicilia. Nel Mare Adriatico c’è una dorsale parallela offshore, da Chioggia al Gargano. La produzione potrebbe facilmente raddoppiare, proprio come prevede la Strategia energetica nazionale: basta perforare dove già si sa che gli idrocarburi ci sono. Invece è tutto bloccato». Incalza Giulio Sapelli, già nel consiglio d’amministrazione dell’Eni: «Per cercare petrolio e gas, una volta in Italia venivano fatte da 600 a 700 trivellazioni all’anno. Adesso soltanto 5. Si potrebbe tornare a fare molto di più».

Ribatte l’ambientalista Ermete Realacci: «Ma una volta in Italia si costruiva anche l’Italsider di Taranto. So bene che la Saipem italiana è la migliore al mondo nelle trivellazioni. Ma non mi pare che possa essere lì il futuro del nostro Paese».

Un piccolo sceiccato italiano del petrolio è (o potrebbe essere) la Basilicata citata da Renzi. Questa regione estrae da sola 5 degli 11 milioni di barili nazionali ma ha risorse non sfruttate per altri 400 milioni di barili accertati (e i tecnici valutano un potenziale di un miliardo di barili). Tabarelli si scandalizza perché «in Basilicata è stata bloccata addirittura la ricerca dei giacimenti, dico la pura e semplice ricerca».

Ma anche sulla Lucania c’è un contro-parere ambientalista: «Io ho lavorato nell’industria petrolifera» dice il geologo Mario Tozzi. «E c’ero anch’io quando in Basilicata è stata tirata fuori la prima “carota” con il greggio. I danni ambientali sono risultati subito evidenti».

Poi c’è il capitolo degli idrocarburi non convenzionali, i cosiddetti «shale», cioè da scisto, che in realtà possono essere contenuti anche in argille, ma non solo; per esempio è «non convenzionale» anche il metano che ristagna nei giacimenti di carbone, cioè il famigerato e temuto grisù che rischia sempre di far esplodere le miniere. Se ne trova in Toscana e in Sardegna, ma sullo sfruttamento del grisù, che pure è stato ipotizzato, anche Davide Tabarelli è scettico: «Spero che non se ne faccia niente».

Invece Giulio Sapelli (ex Eni) sottolinea i pochi danni che fa all’ambiente lo «shale» quando si tratta di petrolio: «Si tratta solo di trivellare orizzontalmente, con dei robottini, i pozzi già trivellati verticalmente e considerati esauriti. I robot vanno a scovare il greggio che si era depositato diversamente e quindi non era stato raccolto al primo passaggio».

Più problemi invece per lo «shale gas», che va estratto con una tecnica di frantumazione delle rocce con getti d’acqua e additivi chimici inquinanti. I tecnici dicono che l’impatto ambientale si può gestire, come si fa negli Stati Uniti (peraltro con polemiche) mentre l’Europa è frenata dai divieti. Tabarelli sottolinea che «persino dalla Polonia, lo Stato europeo più promettente per lo shale gas, l’Exxon, l’Eni e altre compagnie se ne sono già andate». Massimo Siano, di Etf Securities, sull’Europa non è ottimista: «In America gli idrocarburi “shale” non sono stati sviluppati dalle grandi compagnie, ma da operatori che dieci anni fa erano piccoli come Amazon agli esordi, adesso sono molto cresciuti, e fra dieci anni saranno dei giganti. In Europa questo non sta succedendo. E chi farà le infrastrutture per portare lo shale gas dalla Polonia, in concorrenza con le reti degli attuali oligopolisti europei? Nessuno. Quindi noi non avremo le Amazon europee dell’energia. E continuerà a crescere lo spread fra il Brent (il petrolio europeo, più caro) e il Wti americano. Così l’elettricità in Europa costerà di più, e questo frenerà la nostra crescita».

luigi grassia


Level Triple-A conformance icon, W3C-WAI Web Content Accessibility Guidelines 1.0           Copyright 2014 La Stampa           Bobby WorldWide Approved AAA