Cultura
Se il premier
diventa
inevitabile
L’inevitabile. Così già nel 1903, quando l’età giolittiana cominciava appena, Francesco Papafava definì Giovanni Giolitti in una delle sue acutissime cronache politiche per il «Giornale degli Economisti». L’apatia rassegnata con la quale l’altroieri le Camere hanno accolto il discorso di Renzi lascia credere che, dopo più d’un secolo, di «inevitabile» la politica italiana ne abbia infine trovato un altro. Il parallelismo non è soltanto retorico o giocoso: se vogliamo davvero comprendere la mutazione profonda che il sistema politico italiano ha subito negli ultimi tre anni, guardare a Giolitti e all’Italia liberale potrebbe esserci assai più utile che restare aggrappati alle logiche bipolari per il momento del tutto superate del 1994-2011, o a quelle partitiche del 1948-1992.
Col discorso di martedì – in particolare coi passaggi su lavoro e giustizia, nei quali ha preso posizioni che solo con grande sforzo possono esser distinte da quelle della tradizione berlusconiana – Renzi ha completato un’operazione che, in senso tecnico e non morale, potremmo definire trasformistica: ha colmato parte del fossato che divide destra da sinistra, preparando il terreno per una grande confluenza al centro.
È un pezzo che quest’operazione va prendendo forma, del resto: si pensi soltanto alle retoriche e ai ragionamenti sul Pd «partito della nazione» che hanno cominciato a circolare all’indomani delle elezioni europee e sono proseguiti per tutta l’estate.
Come sempre accade nelle operazioni trasformistiche, anche quella che sta compiendo il presidente del Consiglio si collega – causa e conseguenza insieme – all’evanescenza politica delle opposizioni. Troppo deboli in partenza per impedire a Renzi di conquistare il centro, i suoi avversari sono condannati adesso a scegliere fra due vie ugualmente perdenti: o condurre un’opposizione del tutto sterile, o convergere con lui, ma in posizione subalterna. Sulla prima strada si è buttato il Movimento 5 stelle – che, pur andando ancora bene nei sondaggi, a un anno e mezzo dalle elezioni si configura in termini politici come un’esperienza completamente fallimentare. La seconda opzione è invece quella a cui sempre più si va accomodando Forza Italia, con buona pace di Renato Brunetta. A guardarli, salgono davvero alla mente gli avversari dell’uomo di Dronero: il povero Sidney Sonnino, galantuomo impolitico i cui due governi non riuscirono a durare più di cento giorni l’uno; i socialisti perennemente oscillanti fra la collaborazione e il sovversivismo; i radicali che non sapevano più da che parte girarsi, finché non si misero in pancia a Giolitti dando due ministri al suo quarto gabinetto.
Come sempre accade nelle operazioni trasformistiche, anche in questo caso i dissensi e le insoddisfazioni, frustrati e compressi dall’assenza di uno sbocco politico, riemergono di continuo in maniera surrettizia, disordinata, distruttiva. Tutte le votazioni a scrutinio segreto che si sono svolte nelle Camere negli ultimi tempi, ad esempio, hanno sistematicamente dato un risultato differente da quello che ci si aspettava sulla carta – fino allo psicodramma attuale dell’elezione dei giudici costituzionali. O ancora: Renzi, che come ogni buon comunicatore ha bisogno di nemici, non riesce a trovarne neppure uno che abbia un volto e un’identità precisi, e deve continuare all’infinito a sgranare il rosario, tanto vago quanto stucchevole, dei gufi e rosiconi.
L’inevitabile Giolitti lo era a tal punto che la sua era è durata fino al 1914. Fra l’uomo di Dronero e quello di Pontassieve, però, corrono due differenze fondamentali. La prima: Giolitti poteva governare un parlamento sminuzzato e caotico perché si appoggiava su tre pilastri: il sovrano; la capacità di convocare e condizionare le elezioni; un controllo ferreo sulla macchina amministrativa, fatto di grande competenza e durezza sorprendente. A Renzi un punto d’appoggio al Quirinale certo non manca, ma non si sa per quanto tempo ancora resterà. Le elezioni il presidente del Consiglio le minaccia, proprio perché soltanto così può sperare di aver ragione delle opposizioni striscianti – ma la minaccia non è efficacissima, visto che non è facile darle davvero seguito. La macchina amministrativa, infine, per lui non è una soluzione, ma un problema.
La seconda differenza è che il sistema politico giolittiano era fatto per funzionare così, e altro non si conosceva. Il trasformismo renziano viene invece dopo quasi vent’anni di bipolarismo – e i protagonisti stessi dell’operazione trasformistica, l’uomo di Pontassieve e quello di Arcore, restano in teoria dei bipolaristi convinti. Bisognerà capire, in queste circostanze, se la soluzione trasformista oggi provvisoria è destinata a farsi permanente, complici il sistema elettorale proporzionale attualmente in vigore e le viscosità della cultura politica italiana. Oppure se stiamo vivendo una fase di transizione verso il ripristino di una situazione di competizione politica nella quale di «inevitabili», almeno, ce ne siano due.
Giovanni Orsina