Cultura
Ma adesso
tocca
ai governi
Ora dipende davvero da François Hollande e da Matteo Renzi se l’Europa si rimetterà in movimento.
Non soltanto perché Italia e Francia hanno entrambe un gran bisogno di riformarsi per uscire dalle attuali difficoltà economiche: anche perché non c’è altro modo di rompere una altrettanto deleteria immobilità, quella della Germania.
Mario Draghi con la sua mossa a sorpresa di ieri ha fatto tutto quello che poteva, nella situazione data. I mercati temevano che non fosse in grado di tradurre in atti le parole del suo discorso del 22 agosto in America; discorso che era parso al mondo (tranne che a molti tedeschi) innovativo e all’altezza della gravità della crisi. Invece ci è riuscito.
Ma proprio a Jackson Hole sulle Montagne Rocciose il presidente della Bce aveva anche detto chiaro e tondo che per far ripartire l’economia del nostro continente non bastano gli strumenti a sua disposizione.
L’attuale circolo vizioso di inflazione troppo bassa e di ristagno produttivo, lo ha ripetuto anche ieri, richiede azioni di tipo nuovo da parte dei governi.
Occorrono sia riforme incisive sia cambiamenti nelle politiche di bilancio. In Francia e in Italia sono prioritarie le prime; la Germania potrebbe procedere senza rischi a misure espansive dato che ha i conti pubblici in ordine. Mentre a Roma e a Parigi si esita o si procede a fatica, dando a parole ragione a Draghi, Berlino per la parte propria resta del tutto ferma.
Il suggerimento del capo della Bce è ora di discutere prima le riforme e poi una maggiore flessibilità delle politiche di bilancio per tutti i Paesi euro; logico da parte di un economista abituato ad analizzare come si formano le decisioni dei governi (senza buoni incentivi è facile sbagliare). Se si vuole, è anche politicamente astuto, perché in caso contrario – occorre essere realisti – non si andrebbe avanti.
La Bce non ha compiti politici, dunque è sbagliato raccontare le sue mosse con termini da cronaca politica, come si fa solo in Italia (Draghi ieri ha dovuto ovviamente smentire di aver proposto un «grande patto» ai governi). Tuttavia, far funzionare meglio l’economia europea è uno scopo comune per il quale bisogna interagire, ed è politico in senso alto.
La Germania non vuole muoversi perché da un decennio il suo modello economico funziona meglio; le ha fatto finora attraversare la crisi con pochi danni, attorno ad esso si è consolidato un equilibrio politico interno. Dunque squadra che vince non si cambia. Ma è un brutto segno che da lì ora vengano molte reazioni scandalizzate alle novità di Draghi, scarse proposte alternative; insomma povertà di idee sul futuro.
Un ripensamento sta iniziando, a partire anche da esponenti di rilievo del mondo industriale e bancario tedesco: perché mai non investire di più in scuole e strade, perché mai non compiere passi avanti nella solidarietà europea. Incontra molte resistenze. Si bloccherà se continuerà a valere la scusa che in Francia e in Italia non cambia nulla.
Le decisioni di ieri adattano all’Europa, dove la finanza è centrata sulle banche, ricette sperimentate dalla Federal Reserve, dalla Banca d’Inghilterra, dalla Banca del Giappone. Uscite da un compromesso nel consiglio riunito al trentaseiesimo piano dell’Eurotower, paiono in Germania rischiose, a taluni eccessive; nel resto del mondo ci si chiede se saranno sufficienti.
Ora le banche avranno molti più soldi da prestare, ai tassi di interesse più bassi della storia: basterà a convincere le imprese ad investire? Può darsi che la Bce si sia mossa tardi. In ogni caso non ce la farà da sola a stimolare la ripresa. E’ inevitabile seguire lo schema in due tempi proposto da Draghi. Occorre che i due tempi siano i più ravvicinati possibile.
Stefano Lepri