Cultura
il timore
del secondo
tempo
Convocata con la solennità delle grandi occasioni, la conferenza stampa in cui Matteo Renzi a Palazzo Chigi ha spiegato il piano dei mille giorni, per il quale il presidente del Consiglio e i suoi ministri si impegnano a realizzare entro il 2017 le riforme contenute nel programma, ha di fatto sancito il passaggio al secondo tempo del governo.
Dalla fretta di cambiare («una riforma al mese») alla consapevolezza che tra il dire e il fare, magari non c’è sempre di mezzo il mare, ma una complessità e una serie di ostacoli che conviene non trascurare.
La sensazione che Renzi ha voluto dare è di essere rimasto colpito dalle critiche, non solo dell’opposizione, ma anche di settori della società civile, della classe dirigente e dell’opinione pubblica. I quali, in principio, avevano accolto favorevolmente l’avvento del suo governo, ma adesso lo accusano di «annuncite», la malattia dell’annuncio, non seguito da fatti, da cui sarebbe affetto il premier. Di qui appunto la sua decisione di darsi un orizzonte più lungo e comunicare via Internet il quotidiano stato d’avanzamento dei lavori dell’esecutivo: dato che Renzi, non è manco il caso di dirlo, ritiene che certe accuse siano ingiustificate e il bilancio delle realizzazioni dei primi sei mesi parli da solo.
Chi lo conosce, tra l’altro, non crede affatto che Renzi si sia davvero rassegnato a mostrarsi più accorto e ad accogliere le obiezioni che riceve, passando in sostanza dal galoppo al trotto e tenendo in maggiore considerazione le autorevoli raccomandazioni che gli vengono da più parti. Anche perché i consigli che ascolta non sempre sono concordanti: imprese e sindacati vanno in direzioni opposte, da Francoforte Draghi sprona il governo a concretizzare al più presto le riforme economiche e del lavoro, dal Quirinale Napolitano condivide, ma è attento agli equilibri politici interni e parlamentari. Un compromesso tra queste diverse tendenze è effettivamente difficile. E non solo perché Renzi è Renzi e sa benissimo che piace, a chi piace, perché è fatto così. Ma soprattutto perché, dopo mezzo anno a Palazzo Chigi, si è arciconvinto che la politica delle scosse, della rottamazione e di quella che esagerando definisce rivoluzione, sia l’unica cura possibile per un Paese ridotto com’è ridotta l’Italia.
In questo quadro la conferenza di ieri ha avuto solo il senso di un passaggio tattico, un sorprendente (per un leader giovane) ricorso alla classica arte dei politici che dicono il contrario di quel che pensano. Di un secondo tempo improntato alla cautela, a mediazioni e intese a qualsiasi costo come quelle che a lungo hanno scandito la vita dei governi italiani, Renzi, in realtà, non ha alcuna voglia; e forse neppure ne è capace.
È da vedere, inoltre, se con 51 decreti da convertire e dieci disegni di legge da esaminare, un programma che interviene in settori fondamentali come giustizia, scuola e lavoro, oltre agli impegni legati a scadenze di bilancio e alla manovra economica contenuta nella legge di stabilità, la strada più sicura per far seguire i fatti alle parole sia quella di una trattativa ininterrotta, o non servano piuttosto una serie di spinte, e qualche volta perfino di spallate, del genere di quelle che hanno portato l’8 agosto al primo voto sulla riforma del Senato.
Difficile dirlo, ma la lezione del secondo tempo dei governi recenti spinge nella seconda direzione. Basta solo ricordare ciò che è accaduto nei tre anni più gravi della crisi: Monti esordì brillantemente, approfittando dell’emergenza in cui era nato il suo esecutivo tecnico, e nei primi due mesi portò a casa la riforma delle pensioni e l’aggiustamento di bilancio che doveva evitare all’Italia il commissariamento da parte della Trojka di Bruxelles. Ma già all’alba del terzo mese, il Professore non era più se stesso, piegato dalla rissosità della maggioranza di larghe intese e dalle vendette di sindacati e parti sociali. Né andò meglio a Enrico Letta, nella breve e sfortunata esperienza a Palazzo Chigi e a dispetto delle sue apprezzate capacità: perso per strada l’appoggio di Berlusconi, a causa delle vicende giudiziarie del Cavaliere, il giovane premier non ebbe neanche la possibilità di vivere il suo primo tempo, e si ritrovò proiettato direttamente nel secondo. Nel bel mezzo del quale, costretto dalle pressioni degli alleati a una provvisoria cancellazione dell’Imu, di cui ancora si patiscono le conseguenze, dovette cedere, prematuramente e molto controvoglia, il posto al suo successore. Per Renzi questi precedenti, più che i consigli e le raccomandazioni che continua a incassare ogni giorno, sono alla base della strategia per affrontare i prossimi mesi. Ecco perché giocherà il tutto per tutto, per non soccombere alla sindrome del secondo tempo e non aggiungere anche il suo nome alla lista degli ultimi fallimenti.
Marcello Sorgi