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Immeritatamente
A sentire Renzi inneggiare al merito, il gufo che è in me si trasforma di colpo nell’usignolo più trillante: viva viva San Matteo. Solo un dispensatore di miracoli può pensare di introdurre in Italia la meritocrazia. L’idea di modulare lo stipendio di un dipendente pubblico in base alle sue capacità si è sempre scontrata con una difficoltà insormontabile: la totale sfiducia degli italiani nei meccanismi di selezione e nelle persone deputate a guidarli. Si può dire che proprio i sospetti che avvolgono in una nube di disincanto l’imparzialità dei «superiori» abbiano autorizzato le burocrazie sindacali a favorire la stesura di regolamenti labirintici che rendono la selezione impossibile. Oltre alla superficialità arbitraria dei quiz, penso alla follia dei «punteggi», che garantiscono avanzamenti di carriera non ai più bravi, ma ai più assidui nel seguire corsi completamente inutili che tolgono a chi li frequenta il tempo per migliorare davvero sul lavoro.
Nella scuola pubblica che Renzi, marito di una insegnante precaria, vorrebbe trasformare nel tempio del merito, solo i presidi hanno l’autorevolezza per decidere chi è bravo e chi no. Ma se questo accadesse, gli esclusi comincerebbero a denunciare favoritismi e raccomandazioni. E il guaio è che talvolta avrebbero pure ragione. Ignoriamo come il santo premier pensi di risolvere un problema contro cui cozziamo la testa da duemila anni. Ma appena ho sentito parlare di una commissione ministeriale incaricata di redigere un regolamento mi sono subito tranquillizzato: di meritocrazia potranno agevolmente continuare a riempirsi la bocca i governi dei prossimi duemila anni.
Massimo Gramellini