Moderati senza leader di riserva
Si può credere o no alla volontà di Berlusconi di arrivare fino alla crisi di governo, se non sarà trovato un salvacondotto politico alla sua decadenza da senatore. Si può pensare a un’ estrema pressione, sia sul Quirinale sia sul Pd, a una minaccia disperata, ma, alla fine, destinata a non provocare conseguenze irreparabili, oppure ritenere che, davvero, la sorte di Letta sia ormai segnata dal voto previsto per l’inizio di settembre.
Ma il dubbio, destinato comunque a risolversi tra pochi giorni, è legato a una domanda fondamentale: perché la fine della cosiddetta «agibilità politica» di Berlusconi potrebbe essere percepita da milioni di elettori italiani anche come la fine della loro «agibilità politica»?
Questa domanda ne riassume molte altre che sono nate diverse volte negli ultimi vent’anni, legate a tutti i fallimenti dei tentativi di offrire all’elettorato dei moderati una diversa rappresentanza dei loro interessi. Eppure, sono stati tanti coloro che ci hanno provato, dall’ormai lontano ricordo di Mario Segni, ai sogni della rinascita di un mitico «grande centro» postdemocristiano, inevitabilmente destinato a rivelarsi piccolissimo. Fino all’ultimo fallimento, quello di «Scelta civica», il gruppo guidato da Mario Monti che, pure, pareva poter interpretare al meglio quel profilo liberal-conservatore, moderno e autorevole, che caratterizza lo schieramento di centro destra in tutte le democrazie europee.
Nonostante i modestissimi risultati concreti dei governi guidati dal Cavaliere, nonostante il discredito molto diffuso in campo internazionale da lui raccolto, a causa di certe discutibili esibizioni durante i suoi incontri con i colleghi stranieri, nonostante le accuse che gli sono piovute, sia per i suoi comportamenti privati, sia per le vicende legate alla sua azienda, bisogna convenire sulla constatazione che non esiste, da 20 anni e soprattutto in questo momento, un’ alternativa alla leadership berlusconiana sul centrodestra italiano. Non sembra possibile, insomma, quello che in tutte le democrazie del mondo è naturale e persino inevitabile, un passaggio di mano non traumatico tra un capo politico e un altro nello schieramento conservatore, sia al seguito di una sconfitta elettorale, sia per un opportuno ricambio tra generazioni diverse.
I motivi di questa anomalia italiana, la più importante da sanare perché la nostra democrazia possa essere considerata davvero «normale», sono ovviamente numerosi e molti sono legati all’eccezionalità della figura di Berlusconi, imprenditore-politico dotato di grande carisma personale e di altrettanto grande potere mediatico ed economico. Alle più scontate considerazioni che si devono formulare sulla sua personalità, si possono aggiungere, però, altri motivi di questo inossidabile rapporto tra il Cavaliere e un settore importante dei moderati italiani. Motivi che possono spiegare, almeno in parte, i fallimenti di tutti quei tentativi di sostituirlo nel cuore e nel portafoglio dei suoi elettori.
Innanzi tutto, Berlusconi è stato il primo, e finora l’unico, a restituire alla parola «destra», in Italia, l’onore e l’orgoglio di pronunciarla senza vergogna. Coloro che non si riconoscono negli ideali e nei comportamenti della sinistra, e nel nostro Paese sono la maggioranza, si sono sentiti liberati dalla ipocrisia alla quale la dc, per 50 anni, li aveva costretti, quella di definirsi «di centro». Ecco perchè tutti quelli che hanno lanciato l’appello a un nostalgico «centro» hanno avuto pochissima fortuna. Gli elettori italiani conservatori non vogliono tornare a mascherarsi, ora che Berlusconi ha dimostrato che si può essere fieri di dichiararsi tali. Soprattutto, non sono disposti a votare chi non si dichiari assolutamente alternativo alla sinistra. Cosa che non hanno mai avuto il coraggio di dire e di far capire i potenziali rivali di Berlusconi, da Segni a Casini e, da ultimo, a Monti. Persino Fini, quando decise di rompere con il Cavaliere, non si dichiarò più orgogliosamente «di destra», ma, con molta confusione e poca credibilità, andò in cerca di altre inverosimili autorappresentazioni.
I moderati italiani, insomma, non vogliono tornare indietro. A quella politica per cui i governi nascevano non dalla scelta popolare, ma dalle alchimie dei partiti rappresentati in Parlamento. Non vogliono tornare a un sistema di voto, il proporzionale, per il quale non ci sia una candidatura precisa, una faccia alla quale dare fiducia. Una modifica del nostro sistema costituzionale che, ormai, è entrata nella volontà e nelle abitudini dei cittadini e che, anche se non prescritta dalla legge, sarà difficile cancellare nella prassi della politica italiana.
Perché un leader che si avvia agli ottant’anni appare ancora più innovatore degli altri? Perché l’uomo più ricco d’Italia può rappresentare meglio la condizione modesta di un ceto medio nostrano che si sente (e lo è) sempre più povero? Perché è ancora il politico che più si fa capire quando parla? Perché non ha vergogna di non apparire superiore ai suoi elettori e di non disprezzare le loro virtù, ma anche i loro difetti?
Sono tutte domande che gli aspiranti eredi di Berlusconi dovrebbero farsi e, soprattutto, sapersi dare le risposte.