Cultura
Il centrosinistra
che non sa
più parlarsi
A stringere - e con la speranza che il lettore ci capisca qualcosa - l’estenuante guerra di posizione in corso tra le diverse anime del vecchio centrosinistra potrebbe esser sintetizzata più o meno così.
Bersani e D’Alema puntano a ottenere il risultato non raggiunto quando erano ancora nel Pd, e cioè la testa di Matteo Renzi; e Renzi, d’altro canto, lavora per l’obiettivo cocciutamente inseguito sin da quando Bersani e D’Alema erano ancora nel Pd, e cioè ridurli all’irrilevanza politica.
È evidente che se le cose stanno così - ed è oggettivamente complicato sostenere che stiano in altra maniera - non soltanto il centrosinistra farà molta fatica a trovare un minimo comun denominatore che renda possibile la nascita di una coalizione, ma si prepara ad una campagna elettorale che potrebbe vedere il massimo della conflittualità svilupparsi proprio all’interno dello schieramento che un tempo (e non un secolo fa) andava sotto il nome di Ulivo.
Che la situazione sia messa così, lo conferma - in fondo - l’andamento stesso dell’ennesimo raduno di Campo progressista andato in scena ieri. Infatti, Giuliano Pisapia (sempre più insofferente di fronte all’estenuante braccio di ferro in corso) non ha potuto che ripetere il suo appello per un disarmo bilanciato e bilaterale: a Renzi ha chiesto aperture e passi di lato, che vuol dire affidare ad una figura meno divisiva il compito di federare le forze in campo; a Bersani e D’Alema di non pretendere dal Pd quel che il Pd non può dare, e cioè la sconfessione del suo segretario e un’esplicita abiura di molte delle cose fatte in questi cinque anni di governo.
L’aspetto paradossale del violentissimo scontro in atto è nel fatto che entrambi i contendenti (il Pd a trazione renziana e il neo-partito di Bersani e D’Alema) sanno perfettamente che la guerra aperta non potrà concludersi con un armistizio, e che qualcuno dovrà necessariamente uscirne sconfitto: o Renzi - dichiarando fin da ora la sua rinuncia a Palazzo Chigi - o Mdp, tornando a Canossa e accettando una leadership così contestata da aver addirittura portato alla scissione. Sia l’uno che gli altri, insomma, sanno che lo scontro in atto ha il profilo drammatico dell’«ultima battaglia»: e non sembrano intenzionati a perder l’occasione per assestare il colpo finale.
È per questo che ogni proposta avanzata viene respinta al mittente come insufficiente o irricevibile, tanto che il faticoso confronto in atto ricorda sempre più il famoso «ti piace il presepe?» di «Natale in casa Cupiello», dove il povero Luca, capofamiglia, cambiava e ricambiava la sua composizione, ricevendo dal figlio sempre l’identica risposta: il presepe non mi piace. E sembra esser questa - di fronte alle pur timide aperture di Renzi - la posizione scelta in particolare da Mdp: Matteo Renzi no, qualunque cosa dica e qualunque cosa prometta.
Bersani, D’Alema e Speranza, infatti, non si limitano a chiedere un passo indietro del segretario Pd - cosa già difficile da ottenere - ma pretendono dall’intero Partito democratico la sconfessione dei principali atti di governo di questi ultimi cinque anni, dal Jobs Act alla buona scuola, dalle politiche fiscali ai toni da tenere nei confronti dell’Europa: una piattaforma certo legittima, ma che sembra fatta più per rompere che per cercare un’intesa. La sensazione, insomma, è che Mdp cerchi più la spallata nei confronti di un Renzi (ed un Pd) in chiara difficoltà che un patto per cercare di vincere - o almeno non straperdere - le elezioni.
Molti analisti interpretano questo tira e molla come l’ennesima riedizione del famoso (in politica) gioco del cerino: io propongo una cosa, tu dici di no e allora la responsabilità del futuro disastro ricade su di te e io esco dalla tenzone incolpevole e innocente. Può darsi sia così: ma può darsi anche che, per una volta, il cerino acceso resti nelle mani di entrambi, ustionando tutti e due i contendenti. Onestamente, sarebbe un capolavoro: ma un capolavoro, considerati i toni, tutt’altro che impossibile. Tanto che a un sempre più sconfortato Veltroni non resta che dire: «Fare ora una campagna elettorale in polemica, è aprire un’autostrada alla destra». La cosa inquietante è che sia l’uno che gli altri lo sanno - e da tempo - perfettamente.
Federico Geremicca