ebook di Fulvio Romano

sabato 12 settembre 2015

Salone del Libro il pasticcio della politica

LA STAMPA

Cultura


Sono antichi i vizi che hanno provocato il critico avvio della cosiddetta «nuova stagione» del Salone del libro di Torino, la prima e l’unica manifestazione di rilievo nazionale e internazionale nel settore dell’editoria. 

Sono pure esemplari del modo in cui, da sempre, la politica in Italia concepisce la funzione della cultura e configura i suoi comportamenti con le istituzioni e con gli uomini che le devono guidare.

Ecco perché l’accordo a termine con cui, ieri sera, l’assemblea dei soci della Fondazione, l’ente proprietario del marchio del Salone, cioè il Comune e la Regione, attraverso una retromarcia piuttosto ingloriosa, ha richiamato un manager di sicuro e autorevole prestigio come Ernesto Ferrero, può consentire di tamponare i problemi più gravi e urgenti, a partire dalla situazione finanziaria, ma dovrà sfociare, l’anno prossimo, in una soluzione che, prima di tutto, preveda un profondo cambiamento del modello italiano di rapporti tra la politica e la cultura.

Il primo chiarimento fondamentale va compiuto partendo dalla differenza, spesso confusa, fra spesa e investimento. È giusta l’osservazione che biasima la «concezione ragioneristica» dei costi della cultura. Questo non vuol dire, però, che si possa pretendere dalla politica un rimborso «a piè di lista» delle spese sostenute per ogni manifestazione. L’investimento culturale di soldi pubblici, appunto, deve avere un ritorno, certamente non immediato e concepito in una visione complessiva di beneficio per la collettività e per il territorio, ma non evanescente, improbabile, indeterminato, erogato per tutti e per qualsiasi cosa, come spesso capita. L’ amministrazione cittadina o regionale non può essere concepita come un bancomat al quale ci si rivolge con una facile password: «la cultura non ha prezzo». 

D’altro canto, questa consapevole confusione tra spesa e investimento fa molto comodo ai nostri politici che usano la cultura come un magnifico, perché nobilmente giustificabile, alibi per distribuire a pioggia incarichi di prestigio ai più fedeli amici, ma anche posti di lavoro del tutto «assistenziali», senza alcun rapporto con le reali esigenze produttive. Così si spiegano le molte assunzioni per assistenti, addetti stampa, collaboratori che riempiono gli organici, a tempo pieno, di festival, sagre, manifestazioni di ogni genere a sfondo culturale o pseudo culturale. Fenomeno che ha contribuito non poco anche al pesante debito del Salone di Torino

Ultimo corollario di questa strumentale concezione finanziaria, chiamiamola così, del rapporto tra cultura e politica è il costante, enorme ritardo dell’effettiva disponibilità dei soldi promessi dai politici agli amministratori di questi enti. Poiché i fornitori devono essere pagati in tempi ragionevoli, occorre rivolgersi alle banche perché concedano gli anticipi e, così, gli interessi passivi che si è costretti a pagare raggiungono cifre da capogiro. Come è avvenuto negli ultimi anni della passata gestione Picchioni-Ferrero al Salone torinese.

La scelta dei manager che devono guidare musei, teatri, istituzioni culturali in genere, poi, tende a trascurare le qualità che, soprattutto oggi, sono necessarie per raggiungere gli obbiettivi prefissati. Nel mondo dell’editoria, per esempio, è indispensabile una grande esperienza, possibilmente internazionale, nel settore, abbinata a una autorevolezza personale capace di resistere alle pressioni degli interessi, di vario genere, che si affollano sulle scrivanie dirigenziali. La capacità di lavorare in squadra, di creare un clima di collaborazione e di entusiasmo nelle persone con cui si lavora, di aver consolidato nel tempo buoni rapporti con i clienti, in questo caso gli editori, sono altrettanto importanti della competenza che, vera o presunta, non basta per garantire il successo del mandato. Alla luce di queste considerazioni, il varo del tandem Milella-Cogoli, spartito frettolosamente tra indicazione del Comune e quella della Regione, non pareva davvero potesse assicurare una sinergia adeguata a un compito così difficile.

C’è ancora un punto fondamentale sul quale è doverosa una seria riflessione, quello del rapporto con i privati e la situazione a Torino è davvero assai utile per sfuggire alle «trappole» di un caso in cui l’amministrazione pubblica diventa prigioniera di una scelta sempre più onerosa, ma sempre più obbligata. Il Lingotto Fiere, la società di proprietà francese che ospita il Salone del libro, incassa circa l’85 per cento dei ricavi dei biglietti e degli affitti per gli stand espositivi agli editori. Un’alleanza molto pesante, dunque, per le esangui casse di un Salone che potrebbe rivolgersi ad altri spazi cittadini, ma necessaria per evitare che il Lingotto Fiere decida, senza il suo maggior cliente, di abbandonare la gestione della struttura, una eventualità che fa impallidire gli amministratori comunali. La lezione torinese è semplice, ma non sempre facile: tra il pubblico e il privato la collaborazione è utile e può diventare indispensabile, ma deve essere fondata sulla convenienza reciproca e, soprattutto, sulla libertà reciproca.

Luigi La Spina


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