giovedì 30 novembre 2017
Manovra, rush finale del governo E fondi a pioggia un po’ per tutti
Economia
Manovra, rush finale del governo
E fondi a pioggia un po’ per tutti
Oggi doppia fiducia alla Camera e al Senato per blindare la legge di Bilancio
e il decreto fiscale che taglia per primo il traguardo. Raffica di micromisure
Oggi doppia fiducia alla Camera e al Senato per blindare la legge di Bilancio
e il decreto fiscale che taglia per primo il traguardo. Raffica di micromisure
Con un doppio voto di fiducia, alla Camera sul decreto fisco (che in questo modo diventa definitivamente legge) ed al Senato sulla legge di Bilancio al suo primo giro di boa, il governo mette in sicurezza la manovra 2018. Rispetto ai testi originari sono poche le novità introdotte: basti pensare che solo sulla legge di Bilancio, su 4.719 emendamenti e subemendamenti presentati (21 dal Governo, 11 dai relatori, il resto dai parlamentari), ne sono stati approvati appena 173. Il Dl fisco è invece arrivato al traguardo senza che a Montecitorio potessero modificare una virgola rispetto al testo del Senato.
Il grosso della manovra, che nel complesso vale circa 20 miliardi, è rappresentato come è noto dalla sterilizzazione delle clausole di salvaguardia (Iva e accise) per 15,7 miliardi, dagli incentivi alle assunzioni dei giovani ed a favore di industria 4.0. In Senato poi è stato integrato il pacchetto previdenza con lo sconto sull’età della pensione rispetto ai 67 anni previsti per il 2019 per 14.600 lavoratori gravosi, è stata introdotta la webtax che scatterà dal 2019 ed una sforbiciata dal superticket (60 milioni all’anno per tre anni a favore di minori e redditi bassi) quindi è stato rifinanziato in parte il bonus bebè, che nel 2018 resta di 80 euro al mese ma dal 2019 viene dimezzato e non vale più 3 anni ma uno.
Col decreto fiscale, che anticipa una parte delle risorse per fermare (o meglio per spostare in avanti di un altro anno) i rincari dell’Iva, vengono innanzitutto allargate le maglie della rottamazione delle cartelle a cui potranno accedere anche i contribuenti non in regola finora esclusi. Quindi c’è lo stop alle bollette di telefoni e pay-tv a 28 giorni, una stretta sulle e-cig, una semplificazione sugli obblighi di vaccinazione, l’introduzione dell’equo compenso per tutti i professionisti nei rapporti con la Pa, un ritocco allo spesometro ed un miniscudo per i frontalieri.
Nei fatti questi due provvedimenti sono le ultime due leggi di spesa che il governo fa approvare prima della fine della legislatura e nelle pieghe nascondono una miriade di micromisure, interventi spesso localistici (la Xylella pugliese, il cimitero del Vajont, il Carnevale di Viareggio) o a favore di singole categorie, dai poliziotti ai pescatori, dai librai alle associazioni politiche sino agli steward degli stadi. E come se non bastasse a questo treno è stato attaccato pure un mini-milleproroghe che spazia dagli 007 al divieto di incrocio tv-giornali al rinvio di un anno dei rimborsi dei soggetti danneggiati da trasfusioni con sangue infetto.
Ikea L’algoritmo detta i turni Rivolta per i licenziati “Trattati come mobili”
Italia
Ikea
Ikea
L’algoritmo detta i turni
Rivolta per i licenziati
“Trattati come mobili”
A Milano cacciata la madre di un ragazzo disabile
Il colosso svedese: “Non può fare quello che vuole”
A Milano cacciata la madre di un ragazzo disabile
Il colosso svedese: “Non può fare quello che vuole”
È un algoritmo a decidere i turni di lavoro per i 6500 dipendenti dell’Ikea in Italia. Lo fa una volta ogni sei mesi, a settembre e marzo, sulla base di uno schema prestabilito che contempla il flusso dei clienti, il numero dei lavoratori impiegati e le esigenze di ogni singolo reparto.
Schiacciata sotto questa macchina fredda ha trovato il licenziamento per «giusta causa» la signora Marica Ricutti, 39 anni, separata, madre di due figli piccoli, di cui uno disabile. Era impiegata all’Ikea di Corsico, periferia di Milano, dal 1999: non aveva mai ricevuto un richiamo e nemmeno una contestazione sulla sua professionalità.
La signora Ricutti sapeva bene, però, che non avrebbe potuto entrare al lavoro alle 7 del mattino, come previsto dal nuovo turno assegnatole dall’algoritmo al reparto ristorante. Soprattutto il martedì, non era possibile. Quel giorno deve portare suo figlio in un centro specializzato dove sta seguendo una terapia. Ecco perché ha cercato più volte di incontrare il capo del personale. Ha spiegato i suoi problemi, ottenendo rassicurazione verbali. Solo a quel punto, convinta di essere stata compresa, ha accettato lo spostamento nel nuovo reparto. «Mi avevano detto che avrebbero tenuto conto della situazione, non mi sarei mai aspettata un trattamento del genere».
Nessuno ha cambiato il suo turno. Il cervellone non ha previsto eccezioni. L’algoritmo contemplava sempre lo stesso orario: 7 del mattino. Per quattro volte la signora Ricutti ha timbrato il cartellino alle 9, come nel suo orario precedente. Era il 3 di ottobre quando ha ricevuto la prima lettera di contestazione della sua carriera. Il 13 novembre è stata convocata per fornire spiegazioni. Ma quello che ha detto non ha convinto i responsabili dell’azienda.
Infatti, ecco la lettera datata 21 novembre 2017, oggetto: «Licenziamento per giusta causa». Così scrive «Ikea Italia Retail Srl» senza un nome al fondo, se non quello della licenziata: «Gentile signora Ricutti, abbiamo attentamente valutato le giustificazioni da Lei rese in data 13 novembre 2017, in cui non sono stati in alcun modo smentiti i fatti contestati, risultando anzi da Lei ammessi. La Società non può pertanto che ritenere confermati i gravi fatti a Lei addebitati. Sia considerati singolarmente che, a maggior ragione, nel loro complesso hanno fatto venire meno il vincolo fiduciario che è presupposto indispensabile di ogni rapporto di lavoro e sono di una gravità tale da non consentire la prosecuzione nemmeno provvisoria del rapporto di lavoro. Pertanto, sulla base di…, siamo costretti a comunicarle, ai sensi dell’articolo 2119…, il licenziamento per giusta causa. Le competenze di fine rapporto verranno corrisposte non appena effettuati i relativi conteggi. Distinti saluti».
Ma cosa ha fatto di così grave la signora Ricutti? «Niente, assolutamente niente», dice Marco Beretta della Filcams Cgil Milano. «L’unica contestazione riguarda proprio quei pochi ingressi con due ore di ritardo. Cercava in quel modo di sollevare l’attenzione sul suo problema. Visto che tutti gli altri tentativi per trovare una mediazione si erano rivelati inutili. Quel che fa più male di questa storia, è che stiamo parlando di una lavoratrice che ha diritto alla protezione della legge 104, che tutela le madri con figli disabili. Come ha ben detto Marica Ricutti, lei non stava chiedendo un privilegio». Ecco perché dopo due ore di sciopero nel giorno del licenziamento, i sindacati il 5 dicembre faranno un presidio davanti all’Ikea di Corsico per stigmatizzare l’accaduto. Marco Beretta è profondamente amareggiato: «A dispetto delle campagne pubblicitarie sempre così sensibili ai temi sociali, l’Ikea dimostra di considerare i lavoratori soltanto dei numeri da tagliare per abbassare i costi. Come dei mobili. Da montare e smontare a piacimento».
Otto ore di lavoro al giorno, più una di pausa. Stipendio: 1250 euro al mese. La signora Ricutti adesso sta male. «Ho sempre cercato di comprendere le ragioni dell’azienda, ma forse adesso sta venendo meno il valore della dignità umana», ha detto in un’intervista all’HuffPost. «Andrò avanti. Impugnerò il licenziamento accanto alla Cgil». Il suo caso non è isolato. Proprio ieri, un lavoratore dell’Ikea di Bari, padre di due bambini piccoli, è stato licenziato per una pausa più lunga del consentito: 5 minuti. Molti altri lavoratori hanno segnalato problemi di adattamento all’algoritmo. «È un’azienda che è cambiata radicalmente negli ultimi anni», dice Fabrizio Russo, il segretario nazionale della Filcams Cgil. «Rifiuta qualsiasi mediazione sindacale».
Cosa dice l’Ikea di tutto questo? «Negli ultimi 8 mesi Ricutti ha lavorato meno di 7 giorni al mese. Nell’ultimo periodo, in più occasioni, si è autodeterminata l’orario di lavoro senza alcun preavviso nè comunicazione di sorta, mettendo in grave difficoltà i colleghi». E ancora: «Da lei gravi episodi di insubordinazione».
Niccolò Zancan
Amazon “La mia vita a 100 pacchi all’ora e il cronometro per il bagno”
Italia
Amazon
Amazon
“La mia vita a 100 pacchi all’ora
e il cronometro per il bagno”
Il racconto di un dipendente: ritmi logoranti, stress psicofisico, zero premi
E la moderna catena di montaggio rileva in tempo reale il rendimento
Il racconto di un dipendente: ritmi logoranti, stress psicofisico, zero premi
E la moderna catena di montaggio rileva in tempo reale il rendimento
Lavorare in Amazon, una corsa quotidiana contro il tempo fatta di target produttivi da raggiungere, di minuti contati per andare in bagno o in mensa, di uno stress psicofisico che si accumula ogni giorno fin spesso a sfociare in problemi di salute veri e propri. La descrizione della giornata di lavoro nel grande stabilimento di Castel San Giovanni somiglia alla vecchia catena di montaggio, solo molto più sofisticata, perché il mancato rispetto di tempi e tabelle viene immediatamente rilevato da un sistema elettronico che invia un manager a riportare l’addetto ai ritmi del colosso americano della distribuzione.
A raccontarlo è un dipendente di 33 anni assunto tre anni fa con contratto a tempo indeterminato grazie al Jobs Act, che impacchetta gli articoli perché possano essere spediti alla clientela. Lavora su due turni, dalle 6 alle 14 e dalle 14,30 alle 22,30: «Sono turni pesanti per la mole di lavoro. Ogni dipendente segue un target, una media produttiva stabilita sulla base dell’esperienza del personale con maggiore anzianità di servizio, nel mio caso è un numero di articoli che devo imballare. Ho iniziato con target 90, dopo i record che sono stati ottenuti sono arrivato a 100 all’ora». All’interno della mega struttura, gli addetti Amazon sono divisi in venti mansioni diverse per ognuna «il target è aumentato ogni anno».
Faticoso, con «venti chilometri al giorno percorsi col “passo Amazon” fra gli scaffali» lungo gli interminabili corridoi dei capannoni, ma soprattutto stressante, come riportano molti colleghi che di notte sognano di fare dei pacchi, e fisicamente logorante: «Ho avuto le mani atrofizzate, artrite a mani e piedi e mal di schiena, una volta tornato a casa facevo fatica a stringere gli oggetti fra le mani». Ma è sul posto di lavoro che la pressione è più forte: «Ognuno di noi è collegato tramite login al computer, per cui i manager sanno quanto produci e in quanto tempo. Quando vai in bagno ti stacchi dal computer e cominciano a contare i minuti di assenza. Una volta sono stato male e ci sono rimasto un quarto d’ora, perché ho avuto attacchi di vomito, ed è arrivato il richiamo. Come si accorgono che ci metti qualche minuto in più vengono a cercarti».
Anche la pausa pranzo è una corsa contro il tempo: mezz’ora di sospensione dove vanno a finire i minuti per andare e tornare dalla mensa, oltre alla coda per arrivare al cibo. Alla fine, «restano sei minuti per mangiare. Ho fatto tanti lavori stressanti, ma questo psicologicamente è il peggiore, perché entro 10 minuti da un ritardo nell’attività lavorativa che non rispetti il target arriva qualcuno a riprenderti». Lo stipendio oscilla fra 1100 e 1250 euro, ma considerato lo spirito molto americano che permea tutta l’attività ci si aspetterebbe premi legati alla produzione, invece no: «Non abbiamo premi di produttività, e questo a fronte di un aumento del fatturato del 500% in cinque anni, di record su record, invece tutto questo ai dipendenti non ha dato un euro in più. Non ci danno neanche più il panettone a Natale, solo una lettera di ringraziamento».
Qualcuno se ne va, la maggior parte resta, complice la crisi degli ultimi anni, le assunzioni però vedono aumentare il numero dei giovani e degli stranieri, «persone che danno meno problemi, non si iscrivono al sindacato e lavorano come dei matti». Il malcontento cresce ed è sfociato nel primo sciopero venerdì scorso, proprio per il Black Friday, una di quelle scadenze che, come il Natale, segnano la frenesia massima all’interno dei capannoni di Castel San Giovanni, dove i periodi dei regali coincidono col ricorso più massiccio alla manodopera a tempo determinato, rinforzo indispensabile per i lavoratori con contratto definitivo: «La partecipazione allo sciopero è stata buona, non me l’aspettavo». L’azienda non ha fatto una piega e nel braccio di ferro coi sindacati ha preso tempo, annullando l’incontro di lunedì scorso per rimandarlo al 18 gennaio, ben oltre le festività natalizie, quando un eventuale sciopero avrebbe un impatto minore rispetto a un’agitazione che blocchi lo stabilimento in queste settimane. I sindacati premono perché il confronto si tenga entro una decina di giorni, in tempo utile per una nuova, molto possibile agitazione.
Franco Giubilei
Centrodestra diviso ancor prima di partire ( Sorgi)
Italia
Centrodestra
diviso
ancor prima
di partire
Nata per una questione di posti - la Lega, che ha eletto un solo consigliere, è l’unico partito della coalizione a non aver ottenuto posti nel governo regionale - la rottura nel centrodestra all’indomani della vittoria in Sicilia, che doveva anticipare quella nazionale alle prossime politiche, non è l’unico motivo di attrito all’interno dell’alleanza che i sondaggi continuano a dare favorita nella corsa elettorale. È di ieri l’annuncio che l’ex-sindaco di Roma Alemanno, titolare di una delle schegge fuoriuscite dall’implosione della destra ex-finiana, e l’ex-ministri Storace correranno insieme a Salvini. La notizia ovviamente è giunta sgradita alle orecchie della Meloni, leader di Fratelli d’Italia, e assegnataria, secondo le promesse di Berlusconi, di due degli otto ministri politici che dovrebbero far parte del nuovo governo dopo l’auspicata vittoria elettorale nel voto di marzo (gli altri membri del governo, sempre secondo l’ex-Cavaliere, dovrebbero venire dalla società civile). Per Meloni, la presenza nelle liste del Carroccio di Alemanno, che ai tempi di An era titolare di una corrente articolata in tutta Italia, è una spina sul fianco destro. Per Salvini, invece, il timore che lo spinge a rafforzarsi a qualsiasi costo e in qualunque parte del territorio, è il movimentismo berlusconiano, tornato in campo in tv con una serie di proposte, come quella di candidare a premier il generale Gallitelli o come la ripartizione dei ministri, non concordate con gli alleati e mirate a mobilitare l’elettorato di Forza Italia, per vincere la sfida con la Lega su chi avrà un voto in più, e conquisterà il diritto di indicare il nome del premier.
Marcello
Sorgi
È dall’Ungheria che parte la campagna contro l’Europa e l’immigrazione
Italia
È dall’Ungheria che parte la campagna
contro l’Europa e l’immigrazione
Si moltiplicano i movimenti nazionalisti e xenofobi che aprono sedi a Budapest
Per organizzare la propaganda e i convegni utilizzano social e Internet
Si moltiplicano i movimenti nazionalisti e xenofobi che aprono sedi a Budapest
Per organizzare la propaganda e i convegni utilizzano social e Internet
Un container, sei uomini infreddoliti. Le mani legate da fascette di plastica. Altre tre persone, con i polsi bloccati dietro la schiena. Un bosco, una borsa con la scritta Unhcr - l’agenzia Onu per i rifugiati - e una fila di ragazzi faccia a terra. Ásotthalom, confine tra l’Ungheria e la Serbia, dove passa il muro anti migranti voluto da Viktor Orbán. È il piccolo regno di László Toroczkai, il fondatore del movimento di estrema destra «64 Contee». La galleria delle foto degli uomini fermati e umiliati si apre sulla sua pagina Facebook di sindaco del villaggio con l’immagine che lo ritrae insieme ad un mastino, mentre sorveglia le operazioni. Qualche clic e Toroczkai appare di fianco a Roberto Fiore, il leader di Forza Nuova. E poi insieme all’austriaco Martin Sellner, il volto più noto del movimento Generazione identitaria.
La guerra dell’informazione ha bisogno delle prede. Ed è ad Est, tra Budapest, Varsavia, Praga, Sofia che si materializza la frontiera chiusa, sigillata, inviolabile sognata dall’ultra destra europea, protagonista di una campagna di manipolazione dell’opinione pubblica sul tema delle migrazioni e dei diritti. Qualcosa di più complesso, sottile e pervasivo delle «fake news» che usa società di comunicazione, case editrici, think tank pronti ad agire dall’Ungheria, dalla Serbia, dalla Polonia, dalla Repubblica Ceca. Paesi dove governi nazionalisti, anzi, «identitari», sono in grado di garantire il clima giusto. E alla fine mostrano - quasi come trofei - i volti dei migranti fermati sui confini della via balcanica. Non solo chiacchiere e distintivo, ecco come agiscono quando governano. Toroczkai ha iniziato la sua ascesa politica sulle barricate degli scontri a Budapest del 2006. Da almeno cinque anni è ospite fisso nei «Boreal festival» organizzati da Forza Nuova tra Cantù e il Garda. Divenuto sindaco di Ásotthalom, ha trasformato il villaggio in una sorta di enclave bianca, cattolica e antiliberal: qui musulmani, omosessuali e migranti trovano un cartello con i loro volti iconizzati barrati all’ingresso della città.
L’Ungheria da tempo è divenuta il crocevia degli estremisti di destra italiani ed europei. Nelle vie di Budapest, fino a qualche mese fa, giravano due esponenti politici molto noti in Gran Bretagna, Jim Dowson e Nick Griffin, alleati di vecchia data di Forza Nuova. Griffin, ex esponente del British National Party, è oggi vice presidente di Alliance for Peace and Freedom, il partito europeo fondato e diretto da Roberto Fiore. La loro è una vecchia amicizia che risale all’epoca della latitanza del leader di Forza Nuova a Londra. Dowson, definito da The Times «l’uomo invisibile dell’estrema destra inglese», è l’esperto del marketing e dei soldi. Ex pastore, considerato un mago della comunicazione e del marketing, in grado di gestire pagine Facebook con centinaia di migliaia di like, fino a qualche anno fa gestiva il call center del Bnp. I due da un paio d’anni dirigono una campagna internazionale contro i migranti, usando, tra l’altro, la britannica Knight Templar International, società creata un paio di anni fa in Scozia, con discreti uffici nel cuore di Budapest. Funziona come piattaforma per la diffusione sui social delle notizie pubblicate da un network di siti d’informazione, tutti specializzati in «hate speech», promuovendo, nel contempo, la vendita di terreni e fattorie ad Ásotthalom: «Qui c’è un sindaco patriota che caccia i musulmani e accoglie gli occidentali», si legge sul sito ufficiale.
A Dowson è riconducibile la Patriot News Agency, che ha appoggiato fin dal 2016 Donald Trump, «con articoli condivisi centinaia di migliaia di volte negli Stati Uniti», come ricorda The Guardian. Sugli stessi server funzionano una decina di siti di propaganda, con video e notizie su migranti e Brexit. Storiacce cruente, titoli cupi, in stile «Gli islamisti si sono presi il Regno Unito». Contenuti molti simili ai tre video islamofobi pubblicati ieri da Jayda Fransen - vice presidente di «Britain First», partito finanziato da Dowson in Gran Bretagna, a capo di una società di logistica a Budapest, la Britannia Management - rilanciati dal presidente Usa Donald Trump, scatenando durissime polemiche. «Non avete idea di quanto lavoro va in questa operazione», commentava qualche mese fa Griffin sul social russo Vk pubblicando il link ad un articolo del New York Times sulle società di comunicazione dell’amico Dowson.
Daniel Friberg, svedese, divide il suo tempo tra le miniere d’oro e gli autori della nuova destra. Ha fondato a Londra la Arktos, casa editrice con un catalogo dichiaratamente estremista: da Evola al pensatore della «Nouvelle droite» De Benoist, dal manifesto di «Generazione identitaria» agli esponenti dell’Alt-right statunitense. Dal 2014 Friberg ha scelto come base operativa europea Budapest, dove ha aperto tre società, una delle quali oggi attiva. Tra le tante attività, dirige il portale altright.com in società con Richard Spencer, l’esponente della destra estrema Usa divenuto famoso per il suo saluto al neo presidente: «Hail Trump», gridò dal palco durante una convention subito dopo le elezioni.
In Ungheria trascorre lunghi periodi anche il responsabile esteri di Forza Nuova, Angelo Balletta, relatore in un convegno organizzato dalla Knight Templar International lo scorso marzo per promuovere la campagna anti Soros dell’estrema destra. Lo scorso anno Roberto Fiore, insieme a Griffin, Dowson e Toroczkai, ha partecipato ad un incontro presieduto da Edda Budaházy, sorella di György, arrestato negli anni passati per terrorismo. Nome, quest’ultimo, ben noto tra i militanti di Forza Nuova, che nel 2010 organizzò un sit-in per la sua liberazione davanti al consolato ungherese di Milano. Un asse solido, carico di simboli. «Avanti ragazzi di Buda, avanti ragazzi di Pest» è l’incipit di una delle canzoni più sentite della destra italiana, dedicata alle rivolte antisovietiche del 1956. Parole cantante in italiano da qualche tempo anche nei licei di Budapest.
andrea palladino
L’estrema destra italiana ritrova spazi e anche voti
Italia
L’estrema destra italiana
ritrova spazi e anche voti
Da CasaPound a Forza Nuova, si moltiplicano i gruppi
che cavalcano il disagio sociale per raccogliere i consensi
Da CasaPound a Forza Nuova, si moltiplicano i gruppi
che cavalcano il disagio sociale per raccogliere i consensi
Sono ormai troppi i segnali per dire che sia una sorpresa: l’estrema destra è tornata. Quel mondo che per anni è stato confinato tra la cronaca nera e il folklore politico, a metà tra le risse di strada e lugubri manifesti, è a una svolta. Innanzitutto al suo interno. Storici leader, quali Roberto Fiore per Forza Nuova, o Maurizio Boccacci per Militia, sembrano ormai marginalizzati. Non sono mai riusciti a scrollarsi di dosso le scorie ideologiche del neofascismo o del fascismo tout-court. Basta vedere la grafica dei manifesti di Forza Nuova, ispirati al Boccasile peggiore, propagandista della Repubblica sociale italiana. O la M di Militia, mutuata dalla M di Benito Mussolini come campeggiava sulle tessere del Pnf.
Marginali, divisi e anche litigiosi. Ecco dunque che Fiore concentra le energie per una Marcia su Roma, ribattezzata pudicamente Marcia dei patrioti, che già nella scelta di celebrare il 28 ottobre (compleanno del regime) la dice lunga sul nostalgismo. E Boccacci tenta di rubargli la scena sventolando solitario una bandiera della Rsi in piazza Montecitorio lo stesso giorno e si becca un Daspo urbano per i prossimi 3 anni.
Anche maneschi, quelli di Forza Nuova. Non temono di scontrarsi con i giovani di sinistra: ci fu una gigantesca rissa a Magliana, a novembre del 2016. Oppure di opporsi alla polizia. Così non si contano le denunce per manifestazione non autorizzata. Oppure i tentativi di bloccare gli sgomberi, come è successo di recente a Tor Bella Monaca, periferia Est di Roma. O ancora, all’opposto, le intimidazioni contro le famiglie di stranieri che ottengono la casa popolare. Qualche settimana fa, per queste azioni violente, Giuliano Castellino, il leader emergente nella Capitale, è finito agli arresti domiciliari assieme ad altri due attivisti.
Altro profilo, e altra marcia, sembra avere CasaPound. Si definiscono «fascisti del Terzo millennio» e le loro stesse biografie parlano di trentenni o quarantenni che non hanno pregressi in stagioni buie. Così il loro leader, Simone De Stefano, può annunciare: «Siamo stati sdoganati dai risultati elettorali, da Ostia a Bolzano, da Lucca a Lamezia Terme». Non ha tutti i torti. Solo nell’ultimo anno: 9% dei voti a Ostia, 8% a Lucca (con un candidato sindaco che umilia il M5S), 6% a Bolzano. Sono andati benino pure a Todi o L’Aquila.
Se non fosse stato per la capocciata di Roberto Spada al giornalista della Rai, con tutto il prosieguo di analisi e rivelazioni sugli ammiccamenti tra il candidato di CasaPound, Luca Marsella, e il clan Spada, forse la cavalcata trionfale dei «fascisti del Terzo millennio» sarebbe proseguita senza nemmeno suscitare troppi interrogativi e ora potrebbero festeggiare le loro 104 sedi in giro per l’Italia, e la crescita di consensi nell'area del disagio, degli arrabbiati, dei delusi dalla Lega o dal M5S. Invece la magistratura romana ha aperto un fascicolo sulle loro relazioni pericolose con gli Spada e Di Stefano sa quanto il tema può essere pesante. Tanto che ha lanciato la sua provocazione: «Faccio un appello al ministro Minniti, di chiarire se c’è questo rapporto di voto di scambio tra CasaPound e una formazione criminale. Ce lo faccia sapere subito. Se così fosse, CasaPound andrebbe sciolta immediatamente».
È un fatto però che CasaPound ormai ha messo un piede dentro le istituzioni e sogna persino il balzo in Parlamento. Tanto che da ultimo parlano di grande politica, di quale appoggio potrebbero dare al centrodestra, di come opporsi all’euro e alla Ue. Funzionano, in tutta evidenza, le loro parole d’ordine: no all’immigrazione, aiuti agli italiani, sovranismo. Stanno attenti a non ficcarsi in risse inutili. Però, se c’è da menare le mani, non è che siano gandhiani.
Hanno anche adottato la strategia degli aiuti alimentari, alla moda di Alba dorata, i neonazisti in Grecia. Vedi la distribuzione di pacchi di pasta a Ostia. Ma seguono un’accorta strategia legalitaria. Proprio ieri è iniziata la raccolta di firme per una legge d’iniziativa popolare («Reddito nazionale di natalità») che si prefigge di dare a ogni nuovo nato un assegno da 500 euro al mese fino ai 16 anni, ridicolizzando così il bonus bebè del governo e superando a sinistra pure il reddito di cittadinanza dei grillini.
Francesco Grignetti
mercoledì 29 novembre 2017
Sabato sarà una santa Bibiana bianca...
Tutto dipenderà da...
l’Italia della scienza riparte dalle profondità degli abissi marini
Cultura
l’Italia della scienza
riparte dalle profondità
degli abissi marini
L’Italia della scienza riparte dal mare e dalle «blue biotech», con la creazione del primo dipartimento di biotecnologia marina d’Europa che sorgerà a Napoli sotto la guida della Stazione Zoologica Anton Dohrn. Sarà un laboratorio tra i più avanzati al mondo, in cui si studieranno i segreti degli organismi marini per ricavare farmaci innovativi e materiali ultra-resistenti, allevando le specie di maggior interesse naturalistico e industriale nella Marine Farm & Factory di Bagnoli: la fattoria del mare che nascerà su finanziamento del ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca sui resti di quello che doveva essere un centro dedicato alle tartarughe marine e finito distrutto dai vandali.
Un luogo simbolo di una ripartenza verso un futuro più che mai sostenibile, in cui il mare sarà motore di crescita e sviluppo. «Il Mediterraneo costituisce meno dell’1% dei mari globali e contiene al suo interno quasi il 10% dell’intera biodiversità marina, con un’alta percentuale di specie endemiche» spiega Roberto Danovaro, presidente della Stazione Zoologica Anton Dohrn di Napoli. «Partendo da questa ricchezza e unicità abbiamo deciso di investire sulle biotecnologie marine, attraverso le quali si “rubano” i segreti al mare per fare innovazione in modo ecocompatibile ed ecosostenibile». Nel nuovo dipartimento lavoreranno a stretto contatto biologici marini, chimici e ingegneri (è stata appena avviata una selezione di 50 ricercatori su base internazionale) e le ricerche prodotte saranno costantemente sottoposte all’attenzione delle imprese, con l’intento di trasferire le conoscenze al mercato e favorire la nascita di nuovi brevetti, che attualmente vedono l’Italia alle spalle di Paesi come Irlanda e Olanda nel ranking internazionale, malgrado i nostri oltre 8 mila chilometri di coste.
Le prospettive di sviluppo sono infinite: mari e oceani sono infatti custodi di una conoscenza utile a creare ricette innovative per salute, ambiente e industria. Sotto la loro superficie si celano forme di vita che sopravvivono a condizioni estreme, che secernono sostanze tra le più velenose del pianeta, che si nutrono di petrolio o presentano gusci dotati di un rapporto tra leggerezza e resistenza mai osservato sulla Terra. Questi sistemi sono il frutto di un’evoluzione che negli oceani è iniziata circa un miliardo e mezzo di anni prima della comparsa del primo uomo sulla Terra. Ne è un esempio il verme marino Alvinella pompejana che vive in prossimità delle eruzioni vulcaniche, dotato di sistemi biologici di resistenza e raffreddamento che lasciano esterrefatti biologi e ingegneri, oppure la seta prodotta dalla cozza del Mediterraneo Pinna nobilis - il bisso - che già gli antichi utilizzavano per creare tessuti e capace di fornire spunti per creare materiali innovativi super-resistenti, fino ad arrivare al secreto di alcuni tunicati che vivono nelle mangrovie - gli Ecteinascidia turbinata - che possiede spiccate proprietà antitumorali ed è utilizzato per sintetizzare la trabectedina, un chemioterapico largamente usato in oncologia. Ma il mare è una risorsa preziosa anche per l’alimentazione, capace di provvedere al sostentamento di una popolazione umana in costante crescita attraverso le sue riserve infinite di componenti proteiche non obbligatoriamente di origine animale, come ad esempio le alghe, che sono composte per il 50% di proteine. Se il futuro riparte dalle profondità marine, l’Italia ha deciso di prender parte a questo percorso di sviluppo assumendo un ruolo da protagonista, creando una sorgente di crescita e innovazione a partire da una delle bellezze naturalistiche che tutto il mondo ci invidia.
Stefano Massarelli
la sfida in africa dell’Unione Europea al rivale cinese
Cultura
la sfida in africa
dell’Unione Europea
al rivale cinese
Oggi e domani, Europa e Africa celebrano la partnership col 5° vertice Ue-Unione africana (Ua) ad Abidjan. Contemporaneamente, una delegazione economica cinese ad alto livello è in Marocco, che da un paio d’anni Pechino ha individuato come porta dell’Africa, accoltavi col tappeto rosso. La gara fra Cina ed Europa si corre (anche) in Africa.
Prima ai blocchi di partenza, l’Ue sta subendo il sorpasso di Pechino che opera con una spregiudicata penetrazione di massicci progetti e investimenti , come la città industriale di 300 mila abitanti che il gruppo Haite intende costruire ex novo nei pressi di Tangeri, con la benedizione di re Mohammed VI e del presidente Xi Jinping. Con la stessa rapidità e risolutezza la Cina si sta insediando da un angolo all’altro del continente, dal Kenya all’Angola, dalla Nigeria al Congo.
Abidjan può essere una risposta europea a due condizioni: che sia alleggerito il ciarpame declaratorio; che seguano, in tempi ragionevoli, iniziative concrete e tangibili. Non sarà facile. Ue e Ua sanno come soddisfare le rispettive esigenze politico-burocratiche ma non hanno il controllo dell’effettivo impatto su economia e investimenti. Pechino opera invece al contrario. L’onere dei seguiti sarà soprattutto europeo. A fronte di una penetrazione cinese spesso capillare (basta pensare a Huawei), occorre che gli africani vedano crescere la presenza europea e ne avvertano i benefici.
L’Africa è importante per più di un motivo. È la parte del mondo con il maggior potenziale di crescita e di sviluppo; può essere il miracolo della prima metà del secolo XXI, come l’Asia lo è stato negli ultimi 30-40 anni. I partner naturali sono Europa, Cina e, forse, Brasile, più che Stati Uniti o la psicologicamente lontana Russia. Il legame con l’Europa è geografico, con il Mediterraneo da anello di congiunzione (pensiamo ai viaggi di Ulisse), e storico; pur controverso, il passato coloniale ha lasciato una rete di collegamenti culturali ed economici. Il rapporto con la Cina è meno diretto (l’Oceano Indiano è ben largo) ma risponde a una logica d’interdipendenza. L’Africa è il versante Sud della variante marittima della nuova via della Seta; Pechino è affamata di materie prime e di energia che il continente possiede.
La Cina ha bisogno dell’Africa; è ormai una potenza globale ma la sua sfida è più debole in altre parti del mondo, come l’America Latina, vuoi perché si misura con altri grandi Paesi emergenti come Brasile e Messico, vuoi per la concorrenza Usa. Per motivi diversi, l’Europa ne ha altrettanto (se non più) bisogno. Si possono ridurre a tre: demografia, stabilità politica e sicurezza.
Con un tasso di natalità su punte del 40-30 per mille in alcuni dei Paesi più popolosi, come la Nigeria (poco meno di 200 milioni), si stima che l’attuale circa miliardo di africani possa raddoppiare in trent’anni. Rebus sic stantibus non c’è verso che questa crescita non si traduca in un’ondata migratoria, spinta anche da cambiamenti climatici, Stati falliti, penetrazione jihadista e rivalità tribali. Per ridurre la pressione ed evitare focolai di minaccia, l’Europa ha bisogno di un’Africa prospera e politicamente stabile. Questo il senso di un’autentica parthership fra i due continenti.
Con un’agenda che parla di giovani, occupazione, governance, pace e sicurezza, vertice di Abidjan lo ha ben presente. In questi campi l’Ue è certamente davanti alla Cina e gli africani lo sanno. L’imperativo categorico rimane però far crescere l’Africa attraverso commercio e investimenti. Senza sviluppo economico e sociale, il resto, per quanto importante, rimane solo parole.
La concorrenza cinese è brutalmente spregiudicata perché Pechino fa poche domande su democrazia, diritti umani, stato di diritto o su trasparenza degli affari e corruzione. Per l’Ue sono invece linee rosse da rispettare. Tenerle ferme è anche nell’interesse dell’Africa, lo dimostra la gioia nelle strade di Harare dopo la caduta di Robert Mugabe. I principi vanno tuttavia accompagnati da un radicale snellimento e alleggerimento delle procedure e da un pragmatismo che guardi all’impatto sulle condizioni di vita e ai risultati nella crescita. In Africa l’asticella della trasparenza e della governance non può essere collocata alla stessa altezza dell’acquis comunitario. Altrimenti si fa un torto agli africani e un regalo alla Cina.
Stefano Stefanini
partito il primo treno che collega Italia e Cina
Italia
Dal Pavese al Sichuan:
partito il primo treno
che collega Italia e Cina
Trasporta merci per 11.000 chilometri in 18 giorni
Trasporta merci per 11.000 chilometri in 18 giorni
Alla fine, il treno è partito con dieci minuti d’anticipo rispetto all’orario annunciato ai giornalisti, 11,50 invece che mezzogiorno, e questa sarebbe già una notizia. Quella importante è che si tratta del primo merci dall’Italia alla Cina, per la precisione da Mortara a Chengdu, due località che da ieri in comune non hanno più solo la prevalenza delle risaie ma anche una linea ferroviaria diretta. Diciotto giorni di viaggio per fare gli 11 mila chilometri che separano la Lomellina dal Sichuan, decisamente meno dei 40-45 che ci mette una nave. Anche e forse soprattutto nella logistica, il tempo è denaro.
Per Mortara, 15 mila abitanti, nota soprattutto per il suo salame d’oca, è l’evento più eclatante da quando, a inizio Settecento, passò dagli spagnoli ai Savoia. La posizione è strategica, fra Milano, Torino e Genova, vicino alle autostrade e non lontana da un grande porto. Del Polo logistico integrato è azionista al 99,85% la Fondazione Banca del Monte di Lombardia, che dal 2009 ci ha investito 87 milioni di euro, «ma arriveremo a cento», annuncia il suo presidente, Aldo Poli. La Regione Lombardia ha contribuito con un decimo della somma, 8,7 milioni, il governo di Roma, per ora, con una lettera di felicitazioni del ministro delle infrastrutture Graziano Delrio.
Dall’altra parte, i cinesi, che da quando hanno scoperto il capitalismo si sono abituati a fare le cose in grande. Quello della nuova Via della Seta, ricorda Poli, è un progettino da 800 miliardi di dollari che renderà la Cina molto più vicina all’Occidente di quanto lo sia mai stata. Del resto, non è che l’Italia sia stata proprio prontissima a cogliere l’attimo: questo da Mortara è il tredicesimo collegamento ferroviario merci diretto fra Europa e Cina.
La cerimonia d’inaugurazione, in ogni caso, promette bene, come se la vecchia cara provincia italiana si risintonizzasse sulla lunghezza d’onda della globalizzazione. Ci sono dappertutto bandiere italiane e cinesi, c’è la banda che suona gli inni e poi «’O surdato ‘nnammurato» che fa sempre tanto Italia, ci sono le autorità civili e militari, i notabili locali, gli esperti internazionali di logistica, e si ringrazia di essere intervenuto sua eccellenza il prefetto di Pavia. Soprattutto, ci sono i cinesi, in primis il magnate Shijiu Bo, fondatore e presidente del colosso della logistica Changjiu, personaggio chiaramente molto importante e altrettanto compiaciuto dell’operazione. Cita l’immancabile Marco Polo e l’inevitabile proverbio cinese: «Una delle cose più belle della vita è incontrare amici che vengono da lontano». Applausi, flash, strette di mano, la soddisfazione è palpabile.
Plaudenti, e il dettaglio è interessante, anche i leghisti. Mortara è una delle loro città, il sindaco Marco Facchinotti al secondo mandato alla guida di un monocolore del Carroccio. Dalla Padania hanno sempre tuonato contro il dumping commerciale cinese, l’invasione delle merci taroccate, il pericolo giallo. Ma il capogruppo leghista al Senato, Marco Centinaio, di Pavia, spiega che l’occasione era troppo ghiotta, che se arriveranno delle merci dalla Cina ne partiranno però anche per la Cina e insomma, testuale, «business is business». All’assessore alle Infrastrutture della Regione, Alessandro Sorte, di Forza Italia, la battuta è servita su un piatto d’argento: «Ancora una volta la Lombardia è la locomotiva d’Italia».
Intanto la locomotiva, quella vera, parte con un grande striscione in ideogrammi sulla fiancata. Non a pieno carico, ma sono pur sempre una ventina di container zeppi di macchinari, mobili, piastrelle e automobili, insomma il solito «Made in Italy» che piace a tutti, figuriamoci ai cinesi. Approfittando della recente riduzione dei dazi doganali della Repubblica popolare, si esporteranno anche moda, vino, cibo e perfino il riso, che è un po’ come vendere il ghiaccio agli eschimesi. Però, spiega Poli, «il nostro riso è molto diverso dal loro» (e aggiungiamo pure: migliore).
A regime, da gennaio, si parla di due coppie di treni settimanali, ma qui ogni intervenuto, cinese o italiano, fa previsioni diverse. Si tratta, in sostanza, di un esperimento: se funzionerà, sarà facilissimo potenziare i collegamenti. «Come ogni novità, il problema principale è far sapere che esiste e farlo capire al mondo imprenditoriale italiano. Ma il primo convoglio non è uno spot: è l’inizio di un rapporto», spiega Andrea Astolfi, presidente del Polo. Intanto l’Orient-Express dell’import-export è partito. Adesso si tratta di farlo fruttare.
Alberto Mattioli
“Capace e sa fare squadra Padoan è l’uomo giusto per guidare l’Eurogruppo”
Italia
“Capace e sa fare squadra
Padoan è l’uomo giusto
per guidare l’Eurogruppo”
Il ministro Lemaire: ora funziona l’intesa Fincantieri-Stx
Il ministro Lemaire: ora funziona l’intesa Fincantieri-Stx
Non c’è mai stata un’agenda tanto pro-europea, spiegano i funzionari del sesto piano di rue de Bercy, sede del ministero delle Finanze francese. Questo non significa che gli euroscettici siano scomparsi, precisano, ma certo con questa presidenza le priorità sono cambiate rispetto al passato. In questo quadro, la candidatura di Pier Carlo Padoan alla guida dell’Eurogruppo, lanciata nei giorni scorsi dal commissario agli affari europei Pierre Moscovici, è guardata con favore a Parigi. E anche se la partita è ancora aperta, e le variabili in campo sono numerose, è lo stesso ministro Bruno Le Maire a confermarlo, appena tornato nel suo ufficio, con una certa sorpresa del suo staff, che lo attendeva solo nella tarda serata: «Per noi avere un presidente all’Eurogruppo - dice il ministro delle finanze francese - che creda nell’integrazione della zona euro, che abbia le competenze, conosca i meccanismi di stabilità finanziaria, i tecnicismi della materia e la politica monetaria, è una priorità assoluta».
Non basta, aggiunge Le Maire: «C’è un altro criterio che per noi è fondamentale, ed è la capacità di trascinare la squadra, perché non si tratta di gestire un gruppo, ma di dare uno slancio, di imprimere una direzione». Il ministro, mostrando qualche cautela, non nasconde che «bisogna tenere presente le appartenenze politiche e anche tener conto dei posti di responsabilità che sono già occupati all’interno dell’Unione europea». Ma proprio alla luce di tutti questi aspetti, «è evidente che Pier Carlo Padoan è un candidato serio».
Alla luce di un impegno tanto dichiaratamente a favore dell’Europa è sembrato tanto più dissonante l’atteggiamento francese sulla vicenda Fincantieri-Stx, tutto incentrato sulla difesa dell’interesse nazionale, come se l’Italia non fosse un Paese europeo. Ma come spiegano i consiglieri del ministro, l’accordo secondo Macron non era equilibrato dal punto di vista industriale, e l’asset dei cantieri navali era troppo strategico per non prevedere un intervento governativo deciso (a differenza di quanto accade quando ad essere coinvolte nelle acquisizioni sono aziende private, come nel caso Alstom-Siemens). Il ministro Le Maire, che non manca di ripetere il suo personale attaccamento all’Italia - «un profondo interesse culturale» - ammette che la trattativa era partita nel peggiore dei modi: «Mi sono battuto perché il negoziato andasse in porto - aggiunge - e ne siamo usciti grazie alla buona salute della relazione franco-italiana». La posizione francese è improntata a una maggiore integrazione, e l’unione bancaria è un progetto accarezzato con attenzione, malgrado sia evidente che c’è maggiore interesse da parte di chi ha un sistema bancario solido ed efficiente - come la Francia - piuttosto che chi ne ha uno più ridotto. La messa a punto di un’unione bancaria e l’unione del mercato dei capitali per Parigi, è uno strumento decisivo per migliorare l’economia e sostenere le imprese della zona euro, a fronte della capitalizzazione troppo bassa delle imprese.
«È bene che l’Europa assuma maggior peso - dice Le Maire - E lo fa quando decide di imporre una multa di 13 miliardi a Google». O nell’applicazione del principio di reciprocità: «Per caso quando Trump impone dazi a Airbus, facciamo lo stesso con Boeing? Quando la Cina non apre le gare ai settori ferroviari europei, noi cosa facciamo, apriamo alle aziende cinesi?». La questione europea è una questione di potenza, di capacità «di prendere in mano il proprio destino», come aveva detto Frau Merkel dopo l’elezione di Trump, con un’espressione che ha avuto più fortuna a Parigi che a Berlino.
francesca sforza
martedì 28 novembre 2017
La provincia di Cuneo nei 20 in classifica
Cuneo
I risultati delle indagini de «Il Sole 24 ore» e «Italia Oggi»
I risultati delle indagini de «Il Sole 24 ore» e «Italia Oggi»
Ottavi in Italia per numero di imprese
La Granda è promossa su piste ciclabili e depositi bancari. In aumento i furti
La Granda è promossa su piste ciclabili e depositi bancari. In aumento i furti
La Granda nella top 20 nazionale per la qualità della vita. Lo rivelano le indagini dei quotidiani economici «Il Sole 24 ore» e «Italia Oggi» pubblicati ieri, con le classifiche aggiornate delle 110 province italiane. E risultati molto simili.
Per il giornale di Confindustria, Cuneo perde due posizioni rispetto al 2016 e si attesta al ventesimo posto nazionale, il terzo nel Nord-Ovest dietro Aosta (seconda) e la provincia del Verbano Cusio Ossola (7°), davanti a Biella (36), Torino (40), Vercelli (44), Novara (50), Alessandria (64), Asti (68). La graduatoria generale è migliore secondo l’indagine di Italia Oggi, dove la Granda si conferma al 13° posto assoluto.
Le «pagelle» sono il frutto della comparazione di decine di parametri che a loro volta rientrano in macro-settori di ricerca. Ai primi sette posti del «Sole», tutte le province alpine (Belluno, Aosta e Sondrio sono sul podio): misura il benessere, non solo economico dei territori italiani con un insieme di 42 indicatori. La ricerca di Italia Oggi è, invece, curata dal Dipartimento di statistiche economiche dell’Università La Sapienza di Roma, con sette marco aree indagate: prima è Bolzano, seguita da Trento e Belluno.
Negli indicatori economici, la Granda secondo «Il Sole 24 ore» è al 26° posto per prodotto interno lordo procapite (27.300 euro), al 37° per l’importo medio mensile delle pensioni (883 euro), 12° per depositi bancari (22.953 euro procapite). Dati in linea con quelli di «Italia Oggi», dove Cuneo compie un notevole balzo in avanti per il «Tenore di vita».
I canoni di locazione valgono in media 720 euro (78°posto nazionale) e ogni cuneese effettua 37,2 ordini di acquisto online (40°). La provincia è all’ottavo posto in Italia per le imprese registrate. Ha un tasso di occupazione del 67,7%, e la disoccupazione giovanile nella fascia 15-29 anni sfiora il 18°.
Nel settore Ambiente, il focus di «Italia Oggi» vede Cuneo ottantesima, con 110 giorni di superamento del limite di polveri sottili che abbattono, in classifica generale, i buoni riscontri sulle piste ciclabili (69 metri per abitante, 16° posto), le zone a traffico limitato, il verde pubblico (54,7 metri per abitante, 18°), il trasporto pubblico (42,8 passaggi per ciascun residente) e la raccolta differenziata che nei 250 Comuni ha una media del 57,2%.
A livello di «Criminalità», il quotidiano economico di Milano inserisce Cuneo al 13° posto, cioè la Granda è la tredicesima provincia più sicura d’Italia: in calo i reati contro il patrimonio e la persona, minime le percentuali di rapine in banca, omicidi e violenze sessuali, degli scippi e borseggi, diminuiscono anche il traffico di stupefacenti, lo sfruttamento della prostituzione e i furti d’auto. In crescita, invece, i furti in appartamento (dal 75° al 91° posto).
Dettagliate le indagini su Cultura e Tempo libero. Secondo «Il Sole 24 Ore», Cuneo scende al 48° posto in base alla media tra il numero di librerie (55°), sale cinematografiche (48), bar e ristoranti (77), spettacoli (45), indice di sportività (67), Onlus iscritte all’anagrafe che sono 49 ogni 100 mila abitanti. Un’importante sezione della ricerca di «Italia Oggi» è dedicata al disagio sociale, con Cuneo che perde nove posizioni.
matteo borgetto
Imperia perde posizioni nelle classifiche nazionali
Imperia
Imperia perde posizioni nelle classifiche nazionali
Imperia perde posizioni nelle classifiche nazionali
Qualità della vita in ribasso
ora la provincia s’interroga
Dellerba: mancano risorse. Pilati: più servizi e arredo urbano
Dellerba: mancano risorse. Pilati: più servizi e arredo urbano
Nelle indagini sulla qualità della vita la provincia di Imperia continua a perdere posizioni: secondo quella pubblicata sul quotidiano economico Sole 24 Ore è settantesima, con una discesa di cinque caselle, e per Italia Oggi è addirittura 104
Secondo l’inchiesta del Sole 24 Ore, tra i punti dolenti figurano il basso importo delle pensioni (75
Commenta il vice presidente della Provincia Luigino Dellerba: «E’ innegabile il fatto che dalla nostra abbiamo l’invidiabilità del clima, come commenta chi arriva qui per lavoro, come i funzionari delle forze dell’ordine o i dirigenti sportivi, e definisce il posto “un paradiso”. Con le gallerie sulla Statale 28, in 25 minuti si arriva dal mare ai piedi delle Alpi liguri. Il problema è dovuto al fatto che servono risorse: le istituzioni non ne hanno più per gli interventi di miglioramento. Ci sono molte zone dell’entroterra che avrebbero possibilità di sviluppo e non le possono sfruttare. Per piccoli contributi in conto capitale legati magari ad acquedotto o verde pubblico i Comuni che accedono ai bandi devono contribuire con una quota che non hanno disponibile».
Aggiunge Americo Pilati (Federalberghi): «Anche prendendo questi dati con le pinze, resta un fondo di verità. Non va bene che ci sia soltanto il turismo come unica fonte di reddito. Dai discorsi dei nostri clienti, percepiamo inoltre che la situazione peggiora di anno in anno. Le lamentele e le richieste, che non ci fanno certo onore dal punto di vista dell’immagine, riguardano l’arredo urbano, la raccolta dei rifiuti, la mancanza di isole pedonali e di rotatorie. In generale servono più servizi. Tutti poi dicono che il turismo sta andando bene. Come mai, allora, nel Dianese 10 alberghi sono chiusi da tempo?»
enrico ferrari
Morto Stalin se ne fa un altro
Spettacoli
Iannucci: “Il mio dittatore
oggi è più attuale che mai”
Il regista scozzese presenta a Torino Morto Stalin se ne fa un altro
Il dittatore, colpito da ictus, sta per esalare l’ultimo respiro e gli uomini che lo hanno affiancato nel suo governo sanguinario stanno già pensando alle loro rivincite e soprattutto alla nuova spartizione dei ruoli di comando. In gara al Tff, dove è stato accolto da applausi e risate, Morto Stalin se ne fa un altro è un apologo esilarante sul tema del totalitarismo, sulle storture dell’ideologia comunista, sulle meschinità di uomini assetati di dominio: «Il mio obiettivo - spiega il regista scozzese di origini italiane Armando Iannucci - era girare una tragicommedia in cui realtà e divertimento si mescolassero. Non era facile, perchè nella Russia di quel periodo storico, tra Anni 40 e 50, sono stati compiuti orrendi crimini; a Mosca tutti conoscevano qualcuno che era stato ammazzato o spedito in un lager».
Alla base dell’opera (nelle sale l’11 gennaio con I Wonder Pictures) la graphic novel di Fabien Nury e Thierry Robins pubblicata in Italia da Mondadori, ma Iannucci è andato molto oltre, dipingendo, con l’aiuto di attori straordinari, il ritratto di una società avariata, dove ogni regola di reciproco rispetto è andata a male: «L’idea mi era venuta prima di leggere la graphic novel, stavo riflettendo da un po’ sul fatto che i populismi e le figure autoritarie stanno riprendendo piede in tutto il mondo. Penso a personaggi come Putin, Berlusconi, Erdogan e Trump. Mi sono anche interrogato su che cosa potrebbe sucedere se questo avvenisse in Gran Bretagna. Credo che questo genere di ritorni sia legato ad altri eventi, come il crollo delle banche, l’arricchirsi dei ricchi, l’impoverimento dei poveri. Un quadro in cui, mentre lo scontento e il desiderio di cambiamento cresce, quelli che realmente prendono le decisioni diventano sempre meno».
Nel film, nelle ore concitate che seguono il decesso di Stalin, si svolge un ridicolo balletto. In prima linea Nikita Kruscev (Steve Buscemi), affabile e astuto, deciso a bloccare l’ascesa del rivale Beria (Simon Russell Beale). Poi Molotov (Michael Palin), l’oscuro cospiratore che aveva affiancato Stalin dall’inizio; Malenkov (Jeffrey Tambor), il burocrate promosso suo successore, assolutamente incapace di affrontare l’incarico; Mikoyan (Paul Whitehouse), il Ministro degli Esteri, e Maria (Olga Kurylenko), la pianista devota al dittatore. Con loro, divisi tra disperazione e colpi di testa, i figli del morto, Svetlana (Andrea Riseborough) e Vasily (Rupert Friend): «Ho potuto scegliere gli attori in base al ruolo, mescolando diversi dialetti e tipi di recitazione».
In Gran Bretagna, dove il film è già uscito, «ho avuto ottime recensioni, siamo stati nella top ten per sei settimane». E il pubblico dei giovani lo ha gradito: «Questo genere di commedie attira il loro interesse, sono incuriositi dai meccanismi della politica, vorrebbero conoscerli meglio. Fanno parte della prima generazione cui è stato detto chiaramente che il loro non sarà un futuro di benessere. Immagino che vogliano comprendere le ragioni di tutto questo».
Cresciuto a Glasgow, Iannucci ha iniziato con le commedie radiofoniche, poi è passato alla Bbc dove ha realizzato programmi di satira. Con il primo film In the Loop è stato candidato agli Oscar: «Le persone che detengono il potere vivono male, perché hanno sempre paura di perderlo». Tra i film che attende con maggior interesse c’è Loro di Paolo Sorrentino: «Berlusconi, come Putin, non può nemmeno immaginare di rinunciare alla sua supremazia».
fulvia caprara
Fratelli d’Italia l’Italia s’ è spenta (Sorgi)
Cultura
Fratelli
d’Italia
l’Italia
s’ è spenta
Il politologo italoamericano Bob Leonardi ci ricorda i nostri successi
nel Dopoguerra, dall’economia alla politica. E incalza: avete smesso
di guardare l’orizzonte, ma non c’è ragione di rassegnarsi al declino
Il politologo italoamericano Bob Leonardi ci ricorda i nostri successi
nel Dopoguerra, dall’economia alla politica. E incalza: avete smesso
di guardare l’orizzonte, ma non c’è ragione di rassegnarsi al declino
Capita spesso che studiosi stranieri, storici, sociologi, scienziati della politica, vengano a studiare l’Italia, se ne innamorino, magari comperino una casa per le vacanze in Toscana o sulla Costiera Amalfitana, ma poi al momento di scriverne si lascino catturare dai pregiudizi e la descrivano anche peggio di quel che è. Così è sorprendente che il professor Bob Leonardi - italoamericano formatosi a Berkeley, uno dei maggiori esperti di politiche di coesione tra gli Usa, la London School of Economics e l’università della Confindustria Luiss - abbia scritto un libro, Government and Politics of Italy, Governo e politica italiana, edito da Palgrave High Education (pp. 248), per ricordarci che, pur avendo perso la guerra, almeno per metà del secolo scorso e nei primi anni di quello attuale siamo stati un grande Paese. E non c’è ragione di rassegnarci al declino attuale.
Leonardi, già autore con Robert Putnam, consigliere degli ultimi tre presidenti democratici americani, Carter, Clinton e Obama, e con Raffaella Nanetti del più citato libro accademico di politologia (Making Democracy Work, Costruire la democrazia), ha semplicemente ripercorso, date e dati alla mano, gli anni dal 1946 a oggi, osservando innanzitutto che l’Italia è stata uno dei principali costruttori dell’Unione Europea. Se solo si riflette che Altiero Spinelli e Ernesto Rossi, confinati a Ventotene, scrivevano il loro Manifesto nel 1942, mentre i tedeschi stavano quasi per vincere la seconda guerra mondiale, ragiona Leonardi, si capisce quanto anticipatore sia stato il pensiero politico italiano che avrebbe poi portato De Gasperi presidente del Consiglio e Sforza ministro degli Esteri a essere partecipi del processo di fondazione della Comunità nei primi Anni Cinquanta e protagonisti - nel 1955 con Martino e la Conferenza di Messina, e nel 1957 con i Trattati di Roma di cui da poco sono stati celebrati i sessant’anni - del passaggio dagli accordi economici al tentativo, ancora oggi incompiuto, di approdare a un’unione politica e a un governo europeo sovranazionale.
Secondo il professore la ragione di questa visione orientata sul largo orizzonte era che «l’Italia è sempre stata stretta agli italiani» e ha subìto l’influenza della Chiesa cattolica, che «diffondeva un messaggio universale in tutto il mondo». Fin dal secolo del Rinascimento, i Medici prestavano i loro soldi al re inglese Enrico VIII (che peraltro non glieli restituì), avevano loro rappresentanti in Germania e aspiravano a dimensionare i loro affari su scala europea.
Nel libro, il boom economico degli Anni Cinquanta e Sessanta diventa un altro campo su cui misurare la volontà degli italiani di risorgere dopo la distruzione della guerra e le capacità della classe dirigente di corrispondere a queste ambizioni e di orientarle. C’è la fase della ricostruzione delle infrastrutture distrutte dai bombardamenti: strade, porti, ferrovie. E c’è quella successiva dell’industria dei beni e dei consumi, quando la lavatrice, il televisore, i termosifoni e l’automobile entrano a far parte del patrimonio della famiglia media italiana, cambiandone il modo di vivere e creando insieme lavoro e mercato in un sistema economico che cresce al 5-6 per cento per più di dieci anni. E quando lo Stato deve cominciare a ritirarsi dalle imprese pubbliche, ecco - grazie ai distretti industriali costruiti dai governi in Lombardia, Veneto, Emilia, Toscana, Marche - la moltiplicazione di imprese private piccole, medie e grandi, che esportano, danno lavoro e producono ricchezza.
Leonardi sorvola sui disastri della Cassa del Mezzogiorno e della mancata piena unificazione del Sud con il Nord. Ma analizza con grande attenzione la fase - determinata anche dagli scompensi nella distribuzione della ricchezza sul territorio nazionale - che si apre negli Anni Settanta, con l’esplosione quasi simultanea di una criminalità organizzata - mafia, camorra e ’ndrangheta - strutturata a livello nazionale, unica per grandezza a livello europeo, e del terrorismo armato. È un altro titolo di merito dell’Italia, annota lo studioso, essere riuscita sostanzialmente a sconfiggere entrambi i fenomeni senza ricorrere a stravolgimenti dei principi costituzionali e senza aprire guerre civili, come è diversamente avvenuto quasi nello stesso periodo in Germania o in Irlanda.
Il prof ricorda l’affermazione del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa: «L’Italia può sopravvivere alla scomparsa di Moro, ma non potrebbe sopravvivere all’introduzione della tortura». E sottolinea come il Paese sia riuscito a superare anche gli assassinii di personaggi centrali del sistema, come Piersanti Mattarella (1980) e Pio La Torre (1983) costruendo una rete di collaborazioni internazionali negli apparati di sicurezza che alla lunga sono servite a distruggere i vertici delle cosche e a individuare i responsabili della fase più sanguinosa dello scontro, le stragi mafiose del 1992 e ’93.
Inoltre, alla crisi del sistema politico maturata negli stessi anni, l’Italia è riuscita a reagire con una sorta di autoriforma che, seppure imperfetta, ha funzionato, introducendo il bipolarismo e la piena legittimazione di tutte le forze politiche al governo, facendo sparire dalla scena o trasformando partiti superati dalla storia come i comunisti e i fascisti, e spingendo anche forze collocate su versanti opposti del Parlamento a collaborare nei momenti di difficoltà.
Perché allora adesso l’Italia guarda a sé stessa come se fosse incapace di superare la nuova crisi, e rischiasse davvero di finire sottomessa all’ondata populista che minaccia tutta l’Europa? Semplicemente, spiega l’autore con tipico distacco anglosassone, «perché ha smesso di guardare l’orizzonte e cominciato a guardarsi l’ombelico. Invece di pensare ad allargare la torta per tutti, come faceva nel dopoguerra, cerca di mantenere la fetta assai più piccola che le è rimasta. Invece di risolvere i nuovi conflitti interni, ne rimane prigioniera. Invece di usare bene i fondi europei, li adopera per pagare gli interessi del debito pubblico. Un debito troppo grande, che presto le presenterà il conto».
Marcello Sorgi
Gli sdraiati siamo noi
Cultura
Poveri genitori
alieni sdraiati
sulla vita dei figli
Gli adolescenti sono così affascinanti perché qualsiasi cosa facciano, la fanno con la meraviglia della prima volta. Lo aveva scritto il regista Louis Malle, spiegando in poche parole perché quell’età così difficile e densa della nostra vita sia irripetibile. E bellissima e tremenda. È anche un’età nella quale gli adulti si rispecchiano, per capire dove esattamente siano arrivati, a quali sogni abbiano abdicato, quali altri abbiano realizzato, con quanta malinconia siano disposti a vivere ogni giorno.
Il confronto tra adolescenti e adulti è stato negli ultimi cinquanta anni il motore dei mutamenti sociali. È stato per molto tempo un meccanismo che funzionava: le nuove generazioni combattevano le vecchie generazioni, convinte di poter fare meglio, di non meritare certe noie o storture che i genitori avevano intenzione di lasciar loro in eredità, volevano essere più impegnate o meno impegnate, più libere e felici, oppure più inquadrate e concrete. Libri, film e canzoni sull’adolescenza hanno creato l’epos dell’adolescente ribelle e romanticamente disperato. Qui una volta era tutto un «me ne andrò da questo posto e ti dimostrerò chi sono in un luogo nuovo e libero (libero da te e dalle tue regole del cavolo, matusa, ndr)».
Ecco, una che gli adolescenti li sa raccontare come pochi, Francesca Archibugi, prende spunto dal libro di Michele Serra «Gli sdraiati» per avvisare con il suo film omonimo che le cose sono cambiate: gli adolescenti non sono più quella cosa lì che pensavamo.
Sono ancora una fortezza inespugnabile, sì. Sono ancora quelli che non ci sopportano, sì. Sono ancora quelli che capiscono di noi quasi tutto quello che vorremmo tenere loro nascosto, sì. Però non ci vedono più come una montagna troppo alta da scalare. Ci vedono come alieni.
È inutile fare finta di niente: hanno ragione. Li vedi, nel film come nella vita, uscire da scuola liberati dalla prigionia dell’aula, accendere il telefono e trovarlo nel medesimo istante squillante della chiamata disperata di mamma o papà o di tutti e due, pronti a chiedere dove sei, che fai, dove vai, quando torni, con chi sei, salvo non ricevere risposta e mettersi quindi a telefonare al numero del migliore amico (peraltro a quel punto già occupato dalle telefonate dei di lui ansiosi genitori). Loro vivono la loro vita e i genitori li inseguono su WhatsApp, chiedendosi perché abbiano visto il messaggio e non abbiano risposto, mandando le faccette sperando di fare i simpatici e risultando esauriti, condividendo musica che trovano fichissima e che per loro è da reparto geriatrico.
Questi ragazzi non lamentano l’assenza del genitore lontano e distaccato. Au contraire. Non ne possono più di noi che non riusciamo a stare senza di loro, senza la loro approvazione, senza le loro parole di conforto alla nostra vita fondata sull’amore per i figli, senza la loro presenza incombente ma rassicurante. Non sono loro che non se ne vogliono andare da casa. Siamo noi che li preghiamo di dormire ancora una notte nel lettone: «Ma questa volta è l’ultima papà, che sei grande». Gli sdraiati siamo noi.
Alberto Infelise