Cultura
Ma Matteo Renzi l’estate scorsa non aveva rinunciato a partecipare al meeting di Rimini di Cl? E non aveva preferito andare a visitare una rubinetteria, piuttosto che intervenire al Forum Ambrosetti di Cernobbio, dove si raduna ogni anno l’anima più tradizionale del capitalismo e dell’imprenditoria nostrani?
La metamorfosi renziana non si nasconde più, è uscita allo scoperto: e se il Renzi di oggi, come si sente dire sempre più spesso, è diventato diverso da quello di ieri, alla vigilia della guerriglia sulla riforma del Senato e di un autunno in cui il premier si gioca tutto, sarà il caso di chiedersi com’è cambiato.
I suoi avversari dicono che non è più il rottamatore, e veste i panni di un membro dell’establishment. Mettono in fila un elenco di accuse che annovera ben altro che la visita a Villa d’Este e la passerella da Comunione e liberazione. Da segretario aveva chiesto le dimissioni della ministra Cancellieri, da premier aveva buttato fuori dal governo il ministro Lupi, ma poi ha difeso De Luca, il governatore posto dalla commissione Antimafia in cima alla lista degli «impresentabili», e ha fatto votare i salvataggi del sottosegretario Castiglione, inquisito per lo scandalo del Cara di Mineo, e dell’ex-presidente della commissione Bilancio del Senato Azzollini, quello delle irripetibili minacce telefoniche alle suore della clinica che controllava.
Insistono: contro Cofferati, considerato responsabile della sconfitta in Liguria, era stato spietato. Ma su Crocetta e Marino, al centro dei due più scandalosi casi politici degli ultimi mesi, ha abbozzato. Verso Alfano e l’Ncd non perdeva occasione di mostrare insofferenza; mentre ora li corteggia nei vertici di maggioranza. L’asse con Verdini e l’ala più dialogante del centrodestra aveva sempre cercato di dissimularla; adesso, al contrario, la rivendica, accusando i venticinque senatori della minoranza, contrari alla riforma del Senato così com’è, di aver reso indispensabili i voti verdiniani.
Saranno pure recriminazioni di parte della componente post-comunista, che ha dichiarato guerra a Renzi e non gli perdona, dopo l’elezione del presidente Mattarella, di non aver più lavorato per rafforzare la ritrovata unità del Pd nel delicato frangente del Quirinale. Eppure i fatti a cui si riferiscono sono accaduti, ed è innegabile che Renzi stia cambiando. Un anno e mezzo dopo la nascita del governo, però, occorrerebbe anche domandarsi come avrebbe potuto, Renzi, restare il rottamatore delle origini, dopo aver conquistato, nel giro di pochi mesi, prima la guida del partito e poi quella del governo.
Vari indizi fanno pensare che il modello scelto da Renzi per il Pd e il suo modo di rapportarsi al Paese sia quello, ipercollaudato, della Dc. Una Dc 2.0, come va di moda dire di questi tempi, più laica, meno legata alla controversa tutela d’Oltretevere, che non può consentire con il brusco salto nella modernità delle unioni civili. Ma pur sempre democristiana, con l’obiettivo di tornare al 41 per cento accarezzato l’anno scorso alle Europee e rappresentare l’unica offerta realistica di governo, dopo la fine della Seconda Repubblica e del bipolarismo, e di fronte alla confusione dell’antipolitica e del populismo.
Di qui il ritorno alla regola numero uno, che in passato valeva per tutti, cavalli di razza come Moro e Fanfani e uomini di transizione come Piccoli e Forlani: la leadership è sempre contendibile. Renzi non avrebbe mai potuto pensare di scalare il Pd, mettendo in discussione il dominio della componente post-comunista che sulla carta contava sul 70 per cento e si considerava inespugnabile, se non avesse capito che, come diceva Craxi, «piuttosto che confrontarsi con il socialismo riformista, i comunisti diventeranno democristiani». La conversione di gran parte della maggioranza ex-Pci che aveva sostenuto Bersani, ed è diventata renziana tutt’insieme, in effetti ricorda gli spostamenti congressuali del corpaccione centrale doroteo della Balena bianca. E dei venticinque che resistono in Senato, non a caso metà cercano l’accordo.
Sulla trasformazione di Renzi ha pesato tuttavia anche qualcosa di più che la battaglia nel Pd, come ad esempio l’esperienza europea, in cui si è trovato proiettato fin dai primi giorni di governo. Un’Europa in cui è già accaduto ciò che in Italia sembra stia per accadere: lo scontro interno e internazionale con movimenti e governi populisti e xenofobi, la divisione tra le democrazie storiche e quelle giovani e instabili nate dal collasso dell’ex-sistema sovietico, la sensazione che le istituzioni comunitarie non reggano allo stress degli eventi, e la necessità di puntellarle ogni giorno. Una pratica terribile e quotidiana da cui Renzi ha tratto la convinzione che anche la partita interna richieda il massimo di risolutezza. Ecco perché, dal palco del comizio finale della Festa dell’Unità - un appuntamento in cui il leader del partito appare ancora, come scriveva Vázquez Montalbán, «assiso sul baldacchino invisibile su cui sedevano tutti i segretari comunisti del mondo» - ha scelto di adoperare contro gli avversari il massimo dell’autorità di leader e la durezza necessaria, negando di essere disponibile a qualsiasi compromesso sulla riforma del Senato o sull’Italicum.
D’altra parte la nuova strategia è strettamente ancorata alla legge elettorale, che prevede il ballottaggio finale tra due liste, due partiti e non più due coalizioni. Non c’è altra strada, se il Pd - come la Dc ai suoi tempi - deve diventare, agli occhi degli elettori, il partito dell’Italia da salvare dalla paralisi in cui è caduta, in alternativa allo sfascio. Per questo Renzi, se dovesse soccombere in Senato, è pronto a rilanciare la sua sfida nelle urne e nel Paese.
Marcello Sorgi