ebook di Fulvio Romano

domenica 13 settembre 2015

L’impegno oggi danza il pasodoble. di JAVIER CERCAS (dalCorriere della Sera)

Pubblichiamo la seconda parte del racconto «L’uomo che dice No». La prima è su «la Lettura» in edicola da domenica 13/9 

Torniamo all’inizio, allora: cos’è un intellettuale? Cos’è uno scrittore impegnato? Cos’è la letteratura impegnata? Come c’era da temere, a diciott’anni mi sbagliavo: in realtà, Che cos’è la letteratura?, il libro di Sartre, era molto interessante; di più: a quasi settant’anni dalla pubblicazione lo è ancora. È vero che a volte vi si fanno valutazioni ingiuste e affermazioni discutibilissime o assurde, e che il suo autore non sempre rinuncia a pontificare in tono dogmatico, a volte insopportabilmente paternalistico; non è meno vero, però, che alcune delle idee centrali di quel saggio continuano a essere stimolanti e corrette: la sua teoria della lettura come «creazione diretta», per esempio, o la sua reazione contro l’equivoco dell’«arte per l’arte» e contro le concezioni romantiche dell’artista come genio irresponsabile. Per Sartre la letteratura non è ornamento né intrattenimento, ma azione; il risultato di quest’azione è una rivelazione: la rivelazione della realtà; e il risultato di questa rivelazione è una rivoluzione: secondo Sartre, la letteratura serve a trasformare la realtà, vale a dire a cambiare il mondo; e anche a cambiare gli uomini, conducendoli ad assumersi pienamente le proprie responsabilità, l’unico modo per accedere alla liberazione personale. 
Tutto questo intrattiene un’evidente relazione con un’idea centrale nel pensiero del filosofo francese, secondo la quale l’uomo è completamente responsabile del proprio destino – «siamo condannati a essere liberi», come recita la sua celebre formula – ma ciò che importa adesso è che lo condusse al corollario che la letteratura dovesse essere al servizio della rivoluzione proletaria, cioè del comunismo; il risultato fu che, sebbene Sartre insistette spesso sul fatto che l’impegno non dovesse mettere in secondo piano la letteratura, le sue idee portarono spesso a una letteratura propagandistica, di cortissimo raggio, la quale dimenticava che in letteratura è impossibile avere ambizioni politiche e morali senza avere ambizioni estetiche, o che è impossibile cambiare la realtà senza prima cambiare la rappresentazione della realtà. La conclusione era sbagliata, ma il punto di partenza non lo era. A ben guardare, le premesse di Sartre non sono per nulla lontane dalle idee dei formalisti russi, in particolare da quelle di Viktor Šklovskij. Per lui, la missione dell’arte consiste nel de-automatizzare la realtà, nel rendere strano e singolare per noi ciò che, a forza di vederlo, finisce per sembrarci normale e comune. Si tratta, a mio parere, di un’idea inappellabile. 
Montaigne osserva che l’abitudine cancella il profilo delle cose, rendendole imprecise e anodine; ebbene, ciò che l’arte in generale e la letteratura in particolare fanno, o dovrebbero fare, è consentirci di guardare la realtà – la realtà fisica, ma anche quella morale e politica – come se la vedessimo per la prima volta, con tutti i suoi contorni, in tutta la sua meravigliosa pienezza e tutto il suo orrore, strappandole la maschera automatizzata dell’abitudine. Simone de Beauvoir riassunse benissimo il pensiero del suo eterno compagno Sartre quando scrisse: « Nominare è smascherare, e smascherare è cambiare». La letteratura, pertanto, rappresenta una messa a nudo della realtà, ma anche una sua confutazione, e lo scrittore è, per la società, una «coscienza inquieta», per dirla come Sartre, un fastidio, un ribelle, un impertinente, un impugnatore dei valori comunemente accettati, e le sue opere sono lo strumento di questa impugnazione. Ed è questa, ancor oggi, l’idea della letteratura e dello scrittore che difende Vargas Llosa, malgrado per molti altri versi le sue posizioni siano adesso al polo opposto di Sartre: per lo scrittore peruviano la letteratura continua a essere fuoco, e lo scrittore un guastafeste; non è lontana da questa idea nemmeno quella del Kafka che parlava dell’obbligo che i libri fossero pugni sul cranio o asce che rompessero il mare di ghiaccio che abbiamo dentro (quel mare è l’abitudine di Montaigne, l’automatismo di Šklovskij). Né, ovviamente, ne è molto lontana l’idea della letteratura di Oe, sebbene sembri meno prossima all’impegno di Sartre che a quello di Michel Leiris, che ne L’âge d’homme sosteneva «une littérature dans laquelle je m’engage tout entier». In ogni caso, e malgrado le loro differenti sfumature, tutte queste posizioni hanno in comune qualcosa di fondamentale: la loro ambizione, la loro altissima idea del ruolo della letteratura e dello scrittore, la loro assoluta serietà. 
È proprio questo, indubbiamente in parte per reazione, che ha teso a disattendere o a proscrivere la letteratura postmoderna, o meglio la versione meno consistente, sebbene forse più estesa, della letteratura postmoderna. Probabilmente il primo scrittore postmoderno della mia generazione che se n’è reso conto è stato David Foster Wallace. La sua critica del postmodernismo è, a mio modo di vedere, quasi del tutto corretta; ma soltanto quasi. Foster Wallace colpisce completamente nel segno quando afferma che la nostra cultura ha acquisito uno scetticismo congenito, che i nostri scrittori diffidano totalmente delle credenze salde e delle convinzioni aperte e che la passione ideologica li disgusta profondamente; colpisce nel segno anche quando sostiene che ciò che ci è rimasto dell’auge del postmodernismo, forse malinterpretandolo, sono stati il sarcasmo, il cinismo, l’ennui permanente e la diffidenza nei confronti di qualunque autorità; e naturalmente ha del tutto ragione quando, nel 1996, in un’appassionata rivendicazione di Dostoevskij, afferma che la feroce gravità del romanziere russo sarebbe spesso ritenuta, dall’attuale ortodossia postmoderna, pretenziosa e ridicolmente sentimentale, e che non provocherebbe indignazione o improperi, ma qualcosa di peggio: un sopracciglio inarcato e un sorriso sardonico. Tutto questo, l’ho già detto, mi sembra esatto. 
Ma Foster Wallace va oltre, e finisce per attribuire la mancanza di ambizione e di serietà della narrativa del nostro tempo – la sua incapacità di scrivere sulle «vecchie certezze e verità del cuore» di cui parlava Faulkner – all’onnipresenza dell’ironia, al fatto che, dice, «l’ironia postoderna si è trasformata nel nostro habitat»; il che sembra a tratti portarlo a sostenere una letteratura propositiva, capace di trasmettere certezze, di fornire risposte e presentare soluzioni. È un errore. Un errore comprensibile, se si vuole, soprattutto in uno scrittore tanto permeato dall’ironia, dal sarcasmo e dal cinismo postmoderni come Foster Wallace e allo stesso tempo tanto desideroso di liberarsi dal nichilismo al quale tutto quello lo avvicinava; un errore che dice anche molto sul vicolo cieco in cui si trovava la stessa opera di Foster Wallace, incapace di emanciparsi dalla sua dipendenza dal postmodernismo. Ma pur sempre un errore. La letteratura, e in particolare il romanzo, non deve proporre nulla, non deve trasmettere certezze né fornire risposte né prescrivere soluzioni; al contrario: ciò che deve fare è formulare domande, trasmettere dubbi e presentare problemi. Quanto più complesse saranno le domande, più angosciosi i dubbi e più ardui e irresolubili i problemi, tanto meglio. L’autentica letteratura non tranquillizza: inquieta; non semplifica la realtà: la complica. Le verità della letteratura in generale, e del romanzo in particolare, non sono chiare, tassative e inequivocabili, bensì ambigue, contraddittorie, poliedriche, essenzialmente ironiche. 
È molto probabile che l’ironia distruttiva, quella che si confonde con il sarcasmo e perfino con il cinismo, conduca a un nichilismo spietato e sterile; ma l’ironia cervantina, quella che mostra che la realtà è sempre equivoca e molteplice e che esistono verità contraddittorie, è uno strumento indispensabile di conoscenza. Quell’ironia non è il contrario della serietà, ma forse la sua massima espressione: senza di essa non c’è quasi narrativa degna di tale nome, o almeno romanzo. La diagnosi che Foster Wallace faceva dei mali della postmodernità non era sbagliata, lo era parzialmente la sua formulazione, e soprattutto lo era il suo rimedio a quei mali, un rimedio che a volte confina con la versione più pedestre della letteratura impegnata, o vi si addentra. Ho detto la più pedestre. 
Perché la verità è che, in fondo, ogni autentica letteratura è letteratura impegnata, almeno nella misura in cui ogni autentica letteratura aspira a cambiare il mondo cambiando la percezione del mondo del lettore, che è l’unico modo in cui la letteratura può cambiare il mondo; ogni autentica letteratura è letteratura impegnata, almeno nella misura in cui ogni autentica letteratura esige un impegno, un coinvolgimento assoluto, prima dell’autore e poi del lettore, l’altro suo autore; ogni autentica letteratura è letteratura impegnata, almeno nella misura in cui ogni autentica letteratura è di una serietà assoluta, non perché non utilizzi l’ironia e lo humor – che sono due delle cose più serie che esistano – ma perché è rivelazione e smascheramento e pertanto impugnazione della realtà, fuoco, dinamite, sovversione morale e politica, tutto tranne che puro passatempo privo di conseguenze. Tutto questo non significa che il romanziere non possa o perfino non debba avere (o recuperare) passioni ideologiche, credenze salde e convinzioni forti; significa che quelle passioni, credenze e convinzioni non devono essere semplicemente trasferite nel romanzo, facendone un loro veicolo o una loro illustrazione: il romanzo deve piuttosto metterle in questione, minarle, rielaborarle e trasformarle nel carburante della propria contraddittoria complessità. O, detto in altro modo: forse chi può, o perfino deve, avere quelle passioni, credenze e convinzioni non è il romanzo, bensì il romanziere. E così abbandoniamo il territorio della letteratura impegnata per addentrarci nel territorio dell’intellettuale.
(Traduzione di BRUNO ARPAIA)
© JAVIER CERCAS
(II/ continua)