ebook di Fulvio Romano

lunedì 14 settembre 2015

Il partigiano Chiodi

LA STAMPA

Cultura


Grande studioso di Heidegger, raccontò la sua Resistenza in Banditi e divenne

un personaggio del romanzo di Fenoglio. Mostra ad Alba nel centenario del filosofo 

Quando morì, alle Molinette di Torino, il 22 settembre 1970, a tenergli la mano era Giovanni Arpino. Se montalianamente «ognuno riconosce i suoi», il filosofo Pietro Chiodi e lo scrittore all’Ombra delle colline non potevano non fraternizzare. Estranei l’uno e l’altro agli accademismi, liberi fino alla solitudine, spalancati all’abbraccio funesto e splendido che è la vita, non invocando scorciatoie, salvagenti, belletti.

Aveva appena 55 anni Chiodi, quando scomparve, essendo nato il 2 luglio 1915, a Corteno Golgi, nel Bresciano. A ricordarne il centenario, dopo il paese d’origine, chi se non il suo liceo, il «Govone» di Alba, dove insegnò a lungo (ma fu in cattedra pure nel torinese liceo «Alfieri»), tra gli allievi Beppe Fenoglio, che lo accoglierà nel Partigiano Johnny «battezzandolo» Monti? («Monti s’era alzato, nella sua orsina massiccità di montanino corretto da anni di esistenza pianurale»).

Un filosofo, Pietro Chiodi, che «discendeva» dalla Storia. Finita la «guerra civile» (come guerra di civiltà) raggiunse il suo «maggiore», Nicola Abbagnano, che ricorderà: «Nell’androne dello stabile di via Andrea Peyron 29, lo stabile dove abitavo, si affacciò un giovane col moschetto, spaventando il portiere. Salì la scala a grandi falcate. Giunto alla porta del mio appartamento suonò. Appena mi affacciai mi investì: “E adesso che cosa devo fare?”. “Occuparti di filosofia, con la stessa tenacia con cui hai combattuto per la libertà”».

E così il «bandito» Pietro Chiodi, in seguito ordinario a Torino di Filosofia della Storia, tradurrà, primo in Italia, Heidegger, Essere e tempo, correva il 1953, consultandosi, confrontandosi, con don Natale Bussi, altra figura cruciale nella formazione di Beppe Fenoglio (e delle ulteriori indigene «energie nove»), profondo conoscitore della lingua e della cultura tedesca, sacerdote conciliare ante litteram

La stagione nelle file di Gl

Studioso di assoluta caratura, e, quindi, mai incline a ritenersi un monumento. Non a caso Chiodi donerà a Giovanni Arpino un saggio su Heidegger con parole spicce, non imparruccate: «Leggi da pagina 247 a pagina 296. Il resto sono balle, ma quelle pagine devi leggerle proprio tu». Ricordava l’amico: «Lo disse con fermezza e pudore: come una donna gentile, che avendo cotto un bel coniglio ti dà la coscia e si tiene per sé le costole, dove c’è ben poco da rodere».

Scoccata la «mezzanotte del mondo» con la barbarie nazifascista, Pietro Chiodi avvertirà e onorerà l’urgenza di riprendere i sentieri interrotti, di tornare al pensiero, come bussola l’esistenzialismo: «La guerra, l’odio, la distruzione, il tradimento, la sconfitta, l’amara vittoria, facevano emergere gli scogli perennemente frapposti fra il mare dell’esistenza ed il porto dell’assoluto: la morte, la colpa, il nulla, l’impotenza, il tempo».

La morte. Che sospinse Pietro Chiodi a «farsi» bandito, banditen, come i tedeschi apostrofavano i partigiani: «Ripenso alla mia vita di studio, al mio lavoro su Heidegger interrotto. Perché ho abbandonato tutto questo? Mi ricordo con precisione: una strada piena di sangue e un carro con quattro cadaveri [...]. Il cantoniere che dice: “È meglio morire che sopportare questo”. Sì, è allora che ho deciso di gettarmi allo sbaraglio. Avevo sempre odiato il fascismo ma da quel momento avevo sentito che non avrei più potuto vivere in un mondo che accettava qualcosa di simile, fra gente che non insorgeva pazza di furore, contro quelle belve».

In Banditi, nel catalogo Einaudi («Non un romanzo, né una storia romanzata», bensì «un documentario storico»), Pietro Chiodi narrerà la sua stagione resistenziale in Giustizia e Libertà, tra Langhe e Roero, prima e dopo la deportazione in Germania dove contrasse la malattia che si rivelerà letale, nome di battaglia Valerio. Dalla religione alla pratica della libertà, dalla scuola («Parliamo sempre a lungo del Liceo») allo sten. 

L’amico-collega Cocito

Come specchio (reciproco specchio) il collega del Govone Leonardo Cocito, di fede comunista, Corradi nel Partigiano Johnny, docente di Lettere, impiccato a Carignano dai tedeschi il 7 settembre 1944 («Cocito è morto. Non posso immaginare Cocito morto. Ucciso da loro») - sullo sfondo, un’istantanea, l’azionista Luigi Pareyson che invita a «andare il più possibile verso sinistra senza compromettere la libertà». 

Monti e Corradi, Chiodi e Cocito, che di cresta in cresta, di imboscata in rastrellamento, rinnoveranno in Beppe Fenoglio il fascino dell’amatissimo liceo: Monti «che parlava degli stoici, mentre Corradi saltava Oriani per fare il fuoriprogramma Baudelaire», di tanto in tanto un richiamo a «folgorare la testa: “Johnny? qual è l’aoristo di lambano?».

Chiodi-Monti nel «suo» Govone, a rappresentare, fenoglianamente, la sconvolgente primavera di bellezza che è l’adolescenza, la promessa di nike che è la stagione liceale. Monti - ricordava Johnny - «sospirò, nella ineluttabilità della prestazione professionale: “Vedi, l’angoscia è la categoria del possibile. Quindi è infuturamento, si compone di miriadi di possibilità, di aperture sul futuro. Da una parte l’angoscia, è vero, ti ributta sul tuo essere, e te ne viene amarezza, ma d’altra parte essa è il necessario sprung, cioè salto verso il futuro...”».

Bruno Quaranta


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