Cultura
Testimone (scomodo) del ventennio berlusconiano
Ai suoi libri potranno attingere gli storici del futuro per studiare lo spirito dell’epoca
Ai suoi libri potranno attingere gli storici del futuro per studiare lo spirito dell’epoca
I due decenni dell’era berlusconiana sono stati scanditi dai libri di Andrea Camilleri, in un profluvio di titoli che dal 1992 (La stagione della caccia) al 2011 (La setta degli angeli) ha fatto registrare l’uscita di più di 50 volumi: tutti, quelli che hanno Montalbano come protagonista ma anche quelli «storici» che raccontano la Sicilia della seconda metà dell’Ottocento o gli anni del fascismo, ci parlano del presente in cui sono stati scritti. Si è stratificato così un gigantesco giacimento documentario e archivistico al quale lo storico del futuro potrà attingere quando vorrà studiare lo spirito di questo tempo. Grazie al loro successo e all’ampiezza e alla varietà del pubblico dei lettori di Camilleri, c’è infatti nei suoi libri la capacità di rispecchiare quell’insieme di scelte, comportamenti, bisogni, emozioni che definiscono l’esistenza collettiva di un paese. Ma c’è, soprattutto, la loro efficacia nell’aiutarci a penetrare nelle profondità del rapporto tra realtà e rappresentazione della realtà, svelandone la finzione, abituandoci a una consapevolezza critica da usare come antidoto nei confronti di mitologie che appartengono oggi al mercato e ai media, così come in passato appartenevano ai regimi totalitari.
In tutti i romanzi di Camilleri c’è «puzza di teatro». Quella della messa in scena è la tecnica narrativa che lo definisce come scrittore, e probabilmente i suoi libri sarebbero stati scritti comunque in quella forma anche in un altro tempo. E le messe in scena caratterizzano in modo decisivo la politica di oggi; di qui la consapevolezza che il suo modo di raccontare riproduca l’essenza stessa di questo tempo, in un contesto in cui - che si parli del delitto di Cogne o delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein - la realtà, per essere seduttiva e convincente, non ha più bisogno di essere vera: «E così», scriveva sulla Stampa il 16 novembre 2005, «in questo grande, frastornante teatro mediatico, ha finito col non contare più la ricerca di una verità, sia pure una verità processuale, mentre è diventata essenziale la momentanea vittoria degli innocentisti sui colpevolisti e viceversa». Il riferimento era al Porta a porta di Bruno Vespa, ma anche alla «rappresentazione» orchestrata dagli Stati Uniti in piena Assemblea dell’Onu per convincere il mondo della necessità della guerra contro l’Iraq. Sia in questo sia in tutti gli altri articoli sulla Stampa, sia con Montalbano sia nei romanzi storici, Camilleri ha dunque raccontato l’Italia degli ultimi venti anni aiutandoci a squarciare il velo dell’impostura spesso utilizzata dal potere politico per consolidare una legittimazione sempre precaria.
Lo ha fatto con il suo «metodo», percorrendo strade consolidate che il lettore ha imparato a riconoscere e ad amare: la storia rappresentata a «tinte gialle», come un’indagine per smascherare gli inganni e le ingiustizie; un appiglio, un documento di partenza, un volantino, un decreto, un’inchiesta parlamentare, il frammento di un libro; una vicenda avventurosa, intessuta di elementi fantastico-meravigliosi, in grado di rompere la crosta della quotidianità; un potere che reclama le sue vittime, in una visione mai rassicurante o consolatoria; un pessimismo dolente che investe le fondamenta stesse del rapporto tra politica e società civile, senza sconti per nessuna delle due. [...]
Ma lo ha fatto anche in maniera esplicita, senza «tragediature»: «Io sono tutto dalla parte di Chevalley», scrisse ancora sulla Stampa a proposito delle sue riflessioni sulla Sicilia della seconda metà dell’Ottocento. E lo sguardo sulla sua isola esprime più il disagio che il compiacimento: «La mia Sicilia non è terra rassegnata e sonnolenta… è costantemente in movimento, in rivolta contro qualcosa o qualcuno. Che poi io racconti queste vicende in modo ironico o che possa far scivolare il lettore in un’aperta risata, questo non significa né mancanza di passione e ancora meno assenza di passione civile: è un modo, appunto civile, di esporre problemi molto seri». [...]
«Ogni tanto mi indigno… mi è successo qualche volta con Berlusconi», confessò quasi con timidezza a Marcello Sorgi, insistendo anche su una sorta di disincanto rispetto alle ragioni di un’opposizione antiberlusconiana spesso troppo carica di indignazione per essere lucida ed efficace. Per contrastare le grida scomposte e gli schiamazzi che per venti anni hanno riempito di umori tanto bellicosi quanto effimeri lo spazio della politica italiana, Camilleri ha scelto un altro tono, meno sopra le righe. Vi ricordate il «preferirei di no» dei 12 professori universitari che rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo? Si era nel 1931. Su 1200 professori, solo 12 ebbero il coraggio di rifiutare il giuramento e quei 12 si ritrovarono a fare i conti con un fascismo trionfante, che non mancò di deriderli, giudicandoli poco più che un piccolo gruppo di folli.
Restarono soli i «12 che non giurarono». Si scontrarono frontalmente con la politica dello Stato totalitario, ma non trovarono nessun conforto nemmeno nella politica degli altri, negli ambienti «ufficiali» dell’antifascismo. Benedetto Croce consigliò a tutti di giurare perché «era meglio che continuassero a insegnare per mantenere viva la cultura democratica». Furono quindi soli con sé stessi. Eppure rifiutarono. Nessuno di loro colse l’occasione per urlare il proprio antifascismo; e quel tono leggero, quasi dimesso, fu lo schiaffo più clamoroso scagliato contro il fascismo trionfante di quegli anni.
Giovanni De Luna