ebook di Fulvio Romano

sabato 11 novembre 2017

Se il migrante non è per sé nessuno può essere per lui

LA STAMPA

Cultura

Se il migrante non è per sé

nessuno può essere per lui

Gentile Direttore, 
ridurre a una semplice luogo di nascita l’appartenenza ad una cittadinanza mi pare molto superficiale. Ritengo che se non si è figli di genitori italiani, almeno di uno, il solo fatto di nascere in Italia non è sufficiente per appartenere ad avere per nascita la cittadinanza italiana. Non bisogna tenere solo conto del luogo di nascita ma anche di altri fattori culturali che dei genitori stranieri non possono trasmettere e che il nuovo nato acquisisce un po’ alla volta vivendo in Italia. Questa è la linea della seconda opzione della legge attualmente in Parlamento. L’opzione cosiddetta «ius culturae». 
A mio avviso la cittadinanza italiana va data per mezzo dello «ius culturae» a quattordici anni, dopo le scuole medie per bambini nati in Italia. Poi vi sono altre situazioni, ad esempio quando un bambino/a o un ragazzo/a arrivano in Italia in età scolastica e anche qui la legge prevede lo «ius culturae», cioè almeno un ciclo scolastico terminato per avere la cittadinanza italiana. Io aggiungerei con almeno sette anni di vissuto in Italia. 
Ritengo però necessario aggiungere un altro elemento: se questo bambino/a o ragazzo/a da adulto per qualche motivo volesse tornare a vivere nel Paese dei genitori, bisognerebbe prevedere una possibile clausola di rinuncia.

Francesco Baldini

Caro Baldini, il percorso di integrazione culturale che lei suggerisce per gli stranieri desiderosi di diventare italiani è un valido punto di partenza. Non c’è dubbio che un’immigrazione per essere di successo richieda da parte dell’immigrato la condivisione di leggi, valori, tradizioni e costumi del Paese dove sceglie di trasferirsi. Si tratta di un percorso difficile, lungo, disseminato di sacrifici. Nei confronti del quale bisogna avere rispetto. Basta guardare agli italiani emigrati negli ultimi 150 in America e Canada, in Germania, Australia e Belgio per avere un’idea del prezzo pagato da famiglie, generazioni, di connazionali che hanno accettato il compromesso di condividere identità nazionali altrui pur di trovare un lavoro, integrarsi e consegnare il sogno di un futuro migliore ai propri figli. In ognuno dei suddetti Paesi il processo di integrazione prevede aspetti culturali specifici, declinandoli in processi e regolamenti diversi. Tempi, procedure, condizioni e tipologie di esami non potrebbero essere più diversi. 
Dunque è difficile arrivare a definire un processo di integrazione culturale migliore di altri. C’è però un elemento in comune a tutte le immigrazioni di successo: il migrante sceglie, dentro di sé, di entrare a far parte di una comunità di valori e leggi a lui distante. C’è un momento nelle vita del migrante nel quale realizza l’impossibilità di farcela senza trasformare in parte la propria identità. E’ un momento aspro, doloroso, che deve condividere con la propria famiglia e - spesso - far digerire ai parenti rimasti nel Paese d’origine. 
Ma tantopiù tale scelta è salda, tantopiù si trasforma nel volano di una rinascita personale ed economica. Regolamenti a parte dunque, in ultima istanza, il successo di un’immigrazione dipende dalla volontà di integrazione del migrante. Se non è lui a volerla per se stesso, nessuno potrà realizzarla al suo posto.

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