Cultura
Milano
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A Palazzo Reale in vetrina i capolavori del maestro
che rivoluzionò la pittura nell’Italia del ’300
Una guida ragionata ai “pezzi” da non perdere
A Palazzo Reale in vetrina i capolavori del maestro
che rivoluzionò la pittura nell’Italia del ’300
Una guida ragionata ai “pezzi” da non perdere
Il Narratore della Recherche di Proust quando a Padova varca la Cappella degli Scrovegni, è come investito da un getto miracolato, d’un azzurro così azzurro, che «la giornata radiosa sembra aver varcato anch’essa la soglia, assieme al visitatore». In fondo è la stessa impressione di rapimento che si ha a Milano, entrando a Palazzo Reale alla mostra di Giotto nelle stanze, un tempo del nobile Azzone Visconti che chiese al pittore di decorarle (purtroppo quegli affreschi furono abrasi). Grazie alla cura di Serena Romano e Pietro Petraroia, e all’allestimento di Mario Bellini, che ricostruisce, in ferroso «grigio penombra», dei simil-altari (ti permettono d’accostarti senza far scattare allarmi) il miracolo «germinale» della sua pittura è davvero a portata d’occhio, e di stupore rapito, incatenandoci al suo genio sorgivo. Come salire sui ponteggi e vedere «dal vivo» che cosa ha voluto dire, per lui, inventare la «retorica» pittorica, grazie a cui raccontare, per la prima volta, e visualizzare, a suo discrimine, certi passaggi di narrazione biblica. Che non si possono nemmeno ancor chiamare iconografici, perché è lui che li sta forgiando, in diretta: come un fabbro gentile, carnale (del resto i parenti di Giotto erano, non agricoltori dai ricchi attrezzi, come vuole Vasari, ma autorevoli fabbri ferrai). Ecco che cosa significa «ri-mutare» «l’arte del dipingere di greco in latino», come bene spiegò il contemporaneo Cennini. E «ridurre al moderno»: cioè inventarsi un nobilissimo volgare figurativo, mai prima immaginato, proprio come fa Dante, con la sua lingua. (Dante, allievo di quel Brunetto Latini, fratello del vicino di casa di Giotto, con cui si disputa case. Via via che cresce la fama, dipingendo per canonici, cardinali, Papi e Re, il Re Roberto d’Angiò di Napoli, Giotto diventa sempre più ghiotto d’appezzamenti di terra, da lasciare ai suoi parenti, dai nomi immaginosi: Ciuta, Zuccherino, Pinzochera, Lesso, Ricco di Lapo. E che paion inventati da quel Sacchetti, che annovera Giotto tra i suoi personaggi leggendari. Ma di lui parlano anche, ammirati, Boccaccio, Petrarca, Poliziano). Un innovatore, ma che rianima il mondo antico, come intuisce, consapevole, l’umanista Ghiberti: «Arecò l’arte nuova, lasciò la rozzezza dei greci», cioè dei bizantini. Creò «l’arte naturale e la gentilezza con essa…».
Così ci viene incontro quel torso lampeggiante della giovanile Madonna di San Lorenzo: ha ancora un’ombra di rigor austero, da icona bizantina, ma è come se quella durezza stereotipata si sciogliesse, si scongelasse in gesti «gentili». Lei non ha più le classiche pupille «greche», perdute nel destino segnato, biblico ed obbligato, del senza tempo: ci segue con gli occhi, ci coinvolge, c’implora. È la stessa intensità albeggiante, intensa, della Madonna del Polittico Baroncelli (foto 5) che piega il suo capo umile all’oro sfavillante del Cristo, che l’incorona con mano fondente, e lei di tralice ci svela quella palpebra a mandorla, orante, socchiusa. Abitata da dolorosa remissività ed irrequieto trepidare. Insieme a quegli angeli rapiti, che offrono timidi vasetti di fiori (non è vero che bisogna attendere l’Annunciazione fiamminga di Hugo van der Goes, per vedere a Firenze una partitura di pura natura morta). Sopra l’orchestra d’angeli, che s’impegnano con lena: le gote si tendono arrossate sulle tube protese, indifferenti all’idealizzazione del Bello (foto 4). Il nuovo «realismo» di Giotto fa sì che il cuscino del trono istoriato della Vergine, o di san Pietro, si pieghi con verosimiglianza e s’umilii, sotto il peso, non soltanto simbolico, della sacralità. Così come pesa il libro sacro, nelle mani dei Santi; gli angeli, che sostengono i tendaggi arabescati si ritrovano artigli da manovali, e non più gestualità gassose alla Cimabue, mentre altri spiano Dio, con dotte lenti da eclissi, per non ulcerarsi (ecco la distanza «scientifica» tra Dio e l’umano!).
Il trono traforato, in modo che vi passi l’aria e la vista, del Dio-Gesù di Padova (foto 6) con volto adolescenziale, tremula tempera, mimetizzata tra gli affreschi Scrovegni, ha già una saldissima prospettiva «moderna». Anche in quelle dita di squincio, che impongono al perplesso Arcangelo Gabriele (dipinto, ad affresco, sulla parete limitrofa) di partire, ad «annunciare» la Madonna. Che nel Polittico di Santa Reparata (foto 1) gli occhi stranamente biffati dalla «damnatio memoriae», ha un gesto proprio di ripulsa e ribellione, all’intromissione dell’angelo. Perché la vera novità di Giotto è di saper cantare quelli che saranno gli «affetti» rinascimentali. E, come una nebbiolina, far aggallare dai volti, un’aura viva, commossa, che è il portato d’una nuova espressività, indifferente spesso al verismo mimetico: la Maddalena penitente risulta più alta delle rocce montane. Ma perché quelle vette di cartapesta, da Sacra Rappresentazione (Francastel) sono come dei simboli di romitaggio. Come gli alberelli orfani, spesso intaccati da un accetta, che forse annunziano la Croce. O che ondeggiano empatici, accanto alla desolazione di Plautilla, (foto 3) che riceve indietro dal cielo, quasi fosse un aquilone-fagotto pascoliano, che resiste all’aria, il velo insanguinato, che ha protetto gli occhi di Pietro decollato. O quel velo-guanto verissimo, da allestitore, del Cardinal Stefaneschi, che offre a San Pietro (foto 2) in mise en abyme visionaria, alla Borges, una copia del polittico, che stiamo guardando. Quadro nel quadro, che si riverbera all’infinito, con quell’echeggiante macchiolina di rosso. Come il genio-meteora di Giotto, nel Tempo.
Marco Vallora