Prima Pagina
Bonus,
le insidie
del rinnovo
E se i mondiali di calcio dell’Italia, tutta pimpante contro l’inesistente Inghilterra e finita ko contro la squadra di Costa Rica, fossero un’inquietante metafora della parabola del governo Renzi?
Speriamo di no. In fondo qualcosa di buono Renzi lo ha fatto, anche se non è detto che sarà lui a raccoglierne i frutti. Mi riferisco, soprattutto, alla caduta di alcuni tabù del discorso pubblico. Dopo Renzi è diventato ammissibile (ossia possibile senza passare per berlusconiani) criticare la magistratura, dissentire dai «venerati maestri», prendere le distanze dai sindacati. Non solo, ma alcuni tabù sono stati rotti o stanno per esserlo in modo effettivo: ad esempio i vincoli sul mercato del lavoro allentati dal decreto Poletti, e l’inamovibilità e intrasferibilità dei dipendenti pubblici, destinate a cadere con la riforma della Pubblica Amministrazione. Fin qui siamo a Italia-Inghilterra.
Dove però comincia Italia-Costa Rica è su tutto il resto, o meglio sulle cose che contano davvero. Qui la disillusione e le preoccupazioni si sprecano.
La disillusione, innanzitutto. Appena insediato, Renzi aveva dichiarato che «la differenza fra un sogno e un obiettivo è una data», con ciò intendendo che per ogni riforma avrebbe indicato delle scadenze precise e le avrebbe rispettate.
Ricordate la scaletta delle riforme? Febbraio: legge elettorale e riforme istituzionali. Marzo: riforma del lavoro. Aprile: riforma della Pubblica Amministrazione. Maggio: fisco. Giugno: riforma del welfare e della giustizia. Luglio: pagamenti di 68 miliardi di debiti dello Stato e degli Enti locali.
Nessuna data è stata rispettata, nessuna lo sarà, meno che mai quella di pagare 68 miliardi di debiti della Pubblica Amministrazione entro luglio (o settembre) dei quest’anno. Né poteva essere diversamente, a meno di pensare che i predecessori (Letta e Monti) fossero dei completi incapaci. Non è una colpa grave (nessuno ha la bacchetta in mano), ma segnala che anche Renzi è lento, parecchio lento. Le cose veramente importanti andate in porto sono poche (80 euro e decreto Poletti su tutte), il resto dovrà attendere una miriade di incontri, mediazioni, trattative, disegni di legge, decreti delegati, regolamenti attuativi, stanziamenti, come al solito. Niente di nuovo, siamo abituati.
Ci sarebbero poi le preoccupazioni. Qui il nodo è il bonus da 80 euro, o meglio la sua trasformazione in sgravio fiscale permanente, che valga non solo per il 2014 ma anche per il 2015 e gli anni successivi. Il timore di chi l’ha trovato in busta paga, ma anche di alcuni economisti, è che non si riescano a individuare le risorse per coprirlo anche nel 2015 e che quindi la gente, sapendo che non sarà rinnovato, spenda di meno di quanto farebbe sapendo di poterci contare per sempre. Sono timori comprensibili, specie se si crede che l’economia possa ripartire con un piccolo (circa +0.5%) incremento della domanda interna, e inoltre si ritiene che l’aumento dei consumi privati generato dal bonus non sarà sterilizzato dalla corrispondente riduzione della spesa pubblica con cui, a detta dei nostri governanti, il bonus 2015 dovrà essere finanziato.
Il mio timore è opposto, invece. Chiedo scusa in anticipo ai lettori che non saranno d’accordo, ma quel che temo è precisamente che il bonus venga rinnovato, e provo a spiegare perché.
Per rinnovare il bonus occorrono altri 7 miliardi di tagli di spesa pubblica, oltre a quelli già effettuati quest’anno (circa 3). Se, come promesso, il bonus verrà esteso anche ad altre categorie (incapienti, pensionati, lavoratori autonomi) l’ammontare dei tagli di spesa indispensabili salirà abbondantemente al di sopra dei 10 miliardi. Il tutto senza contare gli ulteriori tagli necessari per finanziare i molti miliardi di nuove e diverse spese, più o meno obbligate e improcrastinabili, che immancabilmente si presentano ogni anno (esodati, cassa integrazione, infrastrutture, emergenze e disastri, eccetera). In tutto circa 15 miliardi di vecchia spesa pubblica in meno, 5 miliardi di nuova spesa pubblica in più. Sono conti rozzi e approssimativi, ma anni di disperati esercizi politico-contabili sul bilancio pubblico ci insegnano che sono questi gli ordini di grandezza in ballo.
Ebbene, mi spiace dirlo ma secondo me non può funzionare, e forse è persino un bene che non funzioni. Non può funzionare perché nessun governo italiano è in grado di tagliare 15 miliardi di spesa pubblica in un anno, anche ammesso che la cosa sia desiderabile. Quindi o i tagli saranno minori, o sforeremo i conti pubblici (magari non dicendolo, se no l’Europa ci sgrida, bensì «accorgendoci» a posteriori di averlo fatto). Se i tagli saranno minori, e persino se saranno pari a quelli programmati, non resterà un euro per ridurre il costo del lavoro (cuneo fiscale) e le tasse sulle imprese (Ires e Irap), ovvero per migliorare la competitività della nostra economia, che è poi l’unica via che abbiamo per far ripartire la crescita e, se la crescita sarà superiore al 2%, creare qualche nuovo posto di lavoro. In questa situazione, l’unico modo per mantenere la promessa di stabilizzazione del bonus di 80 euro è quello di adottare, insieme a qualche riduzione di spesa, un mix di nuove tasse (come in parte è già stato fatto) e di ulteriore deficit pubblico, tanto più probabile se, sia pure in ritardo, alcuni debiti dello Stato verso le imprese verranno finalmente onorati.
E tuttavia anche questa non è una prospettiva allettante. Qualsiasi cosa ci permetta o ci proibisca di fare l’Europa, i tassi di interesse che paghiamo sui titoli del debito pubblico si formano sul mercato, e la situazione attuale dei mercati finanziari (tassi bassissimi) è assolutamente eccezionale, ossia non destinata a durare. Possiamo non accorgercene, perché continuiamo a guardare solo allo spread con la Germania, ma già ora i mercati danno segnali di non fidarsi dell’Italia. Basta dare un’occhiata all’andamento dei nostri tassi rispetto a quelli degli altri Pigs o presunti tali (Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna) per rendersi conto della nostra vulnerabilità. Fino al 2012, nonostante tutto, eravamo il meno peggio dei Pigs, poi (da gennaio 2013) siamo stati scavalcati dall’Irlanda, e infine (dal gennaio di quest’anno) siamo finiti anche dietro la Spagna: solo Grecia e Portogallo sono messi peggio di noi. Non solo, ma negli ultimi mesi la posizione relativa dell’Italia è ulteriormente peggiorata: i rendimenti dei nostri titoli di Stato decennali, pur riducendosi, lo fanno meno velocemente di quelli dei tre paesi mediterranei più inguaiati (Grecia, Spagna, Portogallo).
Insomma, a mio parere siamo davanti a una scelta difficile: se Renzi vuole aiutare i veri deboli, ossia chi sta fuori del mercato del lavoro, deve concentrare tutte le risorse sulla riduzione delle tasse sui produttori (Irap e Ires innanzitutto, come ha appena fatto la Spagna) e sulla riforma complessiva del mercato del lavoro. Se invece vuole vincere anche le elezioni regionali (nel 2015 si vota in oltre la metà delle Regioni), avanti così: punti tutto sul rinnovo del bonus, nella speranza che gli elettori appena riacchiappati alle elezioni europee restino in casa Pd il più a lungo possibile.
Luca Ricolfi