Cultura
Lalla Romano, l’autofiction
che abbiamo attraversato
Compie mezzo secolo uno dei romanzi più fortunati della scrittrice piemontese
che con La penombra anticipò una moda letteraria degli anni Duemila
Compie mezzo secolo uno dei romanzi più fortunati della scrittrice piemontese
che con La penombra anticipò una moda letteraria degli anni Duemila
C’è stato un periodo, nel cuore degli anni Duemila, in cui animatamente si discuteva di autofiction letteraria: un modo diverso di raccontare sé stessi? Un’alternativa alla memorialistica pura? In sostanza, l’invenzione di un «io» alternativo o parallelo a quello dell’autore, a cui si affida il racconto creativo del proprio vissuto. Sembrava una novità: non lo era. Lo dimostra un romanzo che in questi giorni compie mezzo secolo: La penombra che abbiamo attraversato. Il primo a recensirlo fu Carlo Bo, il 21 giugno 1964: ne parlò come di «una delle più belle fortune di questi anni, come una conquista memorabile». Franco Antonicelli, sulla Stampa, scrisse che era il libro più compiuto, «più interamente poetico» di un’autrice – Lalla Romano – con alle spalle oltre un ventennio di lavoro prima artistico, poi poetico e narrativo. Piacque a Calvino, a Montale, e piacque – fatto non scontato – a Elsa Morante, che lo definì «incantata poesia».
La prima edizione Einaudi ha in copertina il particolare di un ritratto femminile di Edouard Vuillard, pittore francese del gruppo Nabis: c’è un’aria vagamente proustiana e si attaglia al titolo, estratto da un passo del Tempo ritrovato: «Intorno alle verità che siamo riusciti a trovare in noi stessi spira un’aura poetica, una dolcezza e un mistero, i quali non sono altro se non la penombra che abbiamo attraversato». Da qui il titolo definitivo, ma le carte riemerse dall’archivio Romano, da qualche mese custodito nella Biblioteca Braidense di Milano, mostrano che l’autrice vi arrivò per gradi. Aveva pensato anche a titoli come «Le stanze dell’infanzia», «In un altro tempo», «Il tempo risale». Da qualche altra parte appunta anche un titolo semplice, secco: «La bambina». Tempo e infanzia sono parole chiave che si staccano dalla cascata di lemmi appuntati disordinatamente da Romano in corso d’opera. Ricordarsi di non dimenticare: il tranvai, la slitta, le croci sui sentieri, la balia. Così appare chiaro come il libro si organizzi e prenda corpo intorno a oggetti, visioni, bagliori del «tempo di prima», senza vera continuità narrativa, per associazioni progressive.
Le carte di lavoro di Lalla appaiono sempre sovraccariche: varianti, correzioni, disegni; interviene con accanimento anche sulle pagine dattiloscritte. Scopriamo che La penombra nasce anche sul retro di moduli bancari: il marito della scrittrice, Innocenzo Monti, lavorava alla Banca Commerciale di Milano. A colpo d’occhio si nota l’inesausta ricerca della parola giusta, il lavoro a togliere. La grazia del romanzo è frutto delle sue frasi brevi, a volte brevissime, che chiudono paragrafi già di poche righe; nasce insomma da un corpo a corpo della scrittura con il bianco, con il silenzio (quindi con il non-detto) che è un tratto distintivo dell’opera di Romano. Aveva imparato dalla sua stessa esperienza di poeta (esordì con una raccolta di liriche,Fiore, nel 1941) e forse da Flaubert (tradusse i Tre racconti nel ’44) che lo spazio bianco può contare nella prosa quanto conta nei versi. Così nessun a capo, nessuna pausa fra paragrafi e capitoli, nella Penombra, è qualcosa di neutro o di accidentale; tutto risponde a un’idea di ritmo, come in una partitura musicale.
D’altra parte Lalla Romano era convinta che i ricordi, di per sé, fossero poco più che pettegolezzi: occorre reinventarli (Una giovinezza inventata è il titolo di un suo romanzo del ’79), riscattarli in un orizzonte più ampio: di memoria, di stile. Così la scrittrice, già quasi sessantenne, tornando nei luoghi dell’infanzia – le montagne e le valli del Cuneese, Demonte che nella finzione diventa Ponte Stura – ritrova sé stessa bambina, ritrova quell’«odore leggero che sa di latte, di strame, di erbe amare», ritrova gli inverni e le estati, antiche paure, la musica del flauto suonato da suo padre («Suonando papà si trasformava»), i silenzi della madre, il cane Murò, «giovane e gaglioffo». La nostalgia è assente: a frenarla c’è una severità di sguardo che si posa sull’infanzia senza esaltarla, con crudezza anche. Esiste un istante in cui cominciamo a perdere la purezza, l’innocenza? Che succede ai luoghi quando non li abitiamo più? «Lo scandalo è che Ponte Stura abbia continuato ad esistere». Che cos’è e che cosa significa il tempo imperfetto? Perché, di qualcosa, diciamo che «era»? Le domande nascoste nella Penombra sono molte: e non ce n’è una – come sempre in Lalla Romano – che non sia in fondo un po’ spietata.
Molti, fra i primi lettori, accostarono il romanzo al Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, uscito l’anno prima, ma non c’è parentela. Per intenzione e per tono, la Penombra è un oggetto narrativo diverso: mi pare lo si possa leggere, a cinquant’anni dalla pubblicazione, come una meditazione romanzesca sul tornare a casa, su ogni ritorno a casa. Tanto sembrano remoti ormai questi quadri di vita piemontese, da poterli leggere oggi quasi come favola, sogno, mito. Siamo ancora in tempo per riscoprire Lalla Romano, per toglierle di dosso una patina di memorialista datata che non le appartiene. Più moderna, inventiva, crudele di molti narratori di oggi, ha anticipato esperimenti e tendenze: nel lavoro sulla fotografia (Romanzo di figure), nella riflessione sul rapporto fra una madre e un figlio adolescente (Le parole tra noi leggere), nel racconto della morte del marito (Nei mari estremi, il suo capolavoro: un Livelli di vita, il celebrato libro di Julian Barnes, al femminile). Nella Penombra approda a una verità essenziale, e sembra rispondere come rispose Novalis a chi gli chiedeva quale fosse il senso della sua arte. «Io – spiegò il poeta tedesco – sto sempre tornando a casa, alla casa del padre».
Paolo Di Paolo