Cultura
Elettorale la riforma improbabile
Il re è nudo. Lo ha detto forte e chiaro, prendendo un po’ tutti in contropiede, il non-più-mite Renato Schifani. Sulla legge elettorale non c’è alcun accordo tra Pd e Pdl, così come non c’era nella scorsa legislatura. Lo sapevamo da tempo, non è uno scoop, altrimenti la riforma della Calderoli sarebbe già bella che fatta.
Il Pdl non vuole il ritorno al Mattarellum perché i suoi candidati sono meno riconoscibili sul territorio, dunque meno competitivi nei collegi uninominali. Per ora usa l’alibi che di una nuova legge elettorale si potrà parlare solo alla fine della Grande Riforma della Costituzione, quando (chissà quando) sarà possibile uno scambio del tipo: noi (Pdl) vi concediamo il doppio turno di collegio se voi (Pd) ci date l’elezione diretta del presidente della Repubblica. Ma forse confida nella bocciatura del Porcellum da parte della Corte Costituzionale, prevista per dicembre, per riproporre la richiesta di alcuni «correttivi», come l’inserimento di una soglia che impedisca di assegnare il premio di maggioranza, in modo da non perdere, anche in caso di sconfitta, l’attuale potere di interdizione.
Per il neo-partito di Grillo, il sistema proporzionale con preferenza unica, in pratica un rinculo politico che ci rispedisce dritti dritti alla Prima Repubblica, è la best option, perché gli assicura un potere di veto e comunque una lunga vita. Ma i pentastellati sono disponibili a discutere sia di correttivi alla Calderoli sia di un ritorno alla Mattarella. Purché il teatrino sulla legge elettorale non diventi una scusa per rinviare all’infinito il ritorno alle urne, ha detto proprio ieri il capogruppo al Senato Nicola Marra.
Una parte del gruppo parlamentare Pd considera preferibile e praticabile proprio quest’ultima soluzione, peraltro richiesta da un milione e mezzo di cittadini che in venti giorni, nel settembre 2011, durante le feste de l’Unità, sottoscrissero un apposito quesito referendario. Ma il Pd è attraversato dalla faglia tra le due alternative in campo.
Da un lato, alla Camera, c’è la mozione Giachetti, sulla linea pro-Mattarella, su cui potrebbero convergere Sel, M5S, Scelta Civica e Lega. Dall’altro Finocchiaro e Zanda che, al Senato, lavorano per la linea Violante che punta a un accordo con il Pdl, ad estrema difesa delle larghe intese.
L’ultima proposta avanzata dall’ex presidente della Camera, illustrata anche ieri l’altro in un’intervista alla Stampa, non è nuova e nemmeno insensata: se nessuna coalizione raggiunge il 45% dei voti al primo turno, il premio di maggioranza viene assegnato a chi vince lo spareggio, al secondo turno, tra le due coalizioni più votate. Questo modello (proporzionale con premio di maggioranza in due turni) è stato introdotto nel dibattito italiano da Gianfranco Pasquino nella prima metà degli Anni Ottanta (Restituire lo scettro al principe, 1986). Augusto Barbera, facendo da sponda parlamentare ai referendum Segni, ne promosse l’adozione per i comuni sopra i 15.000 abitanti, nel 1993. Lo stesso modello fu ripreso dalla bicamerale D’Alema (1997) ed è poi riapparso in diverse varianti per arrivare sino ai saggi di Napolitano. Dovrà muoversi tra la padella delle liste bloccate e la brace delle preferenze, ma garantisce la governabilità senza mettere un dito nell’occhio al centrodestra.
La linea Violante potrebbe dimostrarsi efficace se le larghe intese fossero davvero quel che si dice: una collaborazione eccezionale e transitoria tra forze politiche antagoniste, volta a porre le condizioni per tornare al voto dando ai cittadini la possibilità di scegliersi un governo di legislatura. Siccome le Grandi Riforme potrebbero non essere alla portata della 17
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Elisabetta Gualmini