ebook di Fulvio Romano

sabato 31 agosto 2013

Meno politica e più cultura (finalmente!)...

LA STAMPA

Italia

I senatori a vita dal 1949 a oggi

Torna il modello Einaudi Meno politica e più cultura

Ogni presidente ha “interpretato” l’istituto, celebri i no di Iotti e Montanelli

Lo si è capito subito, un minuto dopo la nomina: non avranno vita facile i quattro senatori a vita scelti da Napolitano, con un criterio che lo stesso Presidente ha voluto definire «einaudiano».

Scienza e cultura - piuttosto che la politica - come ambiti di provenienza, grande prestigio personale e internazionale, proprio come recita l’articolo 59 della Costituzione, che elenca come requisiti l’aver «illustrato la patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario».

E da questo punto di vista, checché ne dicano i parlamentari del centrodestra che ieri hanno criticato l’iniziativa del Presidente - dall’immancabile Daniela Santanchè, che avrebbe, pensa un po’, voluto Berlusconi, a Pietro Liuzzi, che sponsorizzava Riccardo Muti e Giorgio Albertazzi, al leghista Roberto Calderoli, sospettoso che il centrosinistra, con i nuovi arrivati, conquisti quattro voti decisivi al Senato - Napolitano non poteva scegliere meglio. Basta scorrere i curriculum dei nuovi senatori, conosciuti e apprezzati in tutto il mondo: Claudio Abbado per aver diretto a lungo le più importanti orchestre di Parigi, Londra, Vienna, Berlino; Carlo Rubbia per la sua lunga missione a Ginevra, le 28 lauree honoris causa che sottolineano l’impegno per la ricerca nella fisica delle particelle elementari e un asteroide perso nello spazio e intitolato a suo nome; Renzo Piano per le innumerevoli «tracce» architettoniche e artistiche seminate nelle grandi metropoli, da Tokyo a Sidney, a Parigi, Berlino, Dallas, e la grande passione per il mare che lo ha spinto a disegnare per sé una delle barche più belle di tutti i tempi; Elena Cattaneo, la più giovane, per la lunga e testarda esperienza di ricercatrice in America e il suo parlar chiaro contro ogni limitazione ideologica o integralista della ricerca e dell’uso delle cellule staminali.

Ma il punto è che da tempo - e particolarmente negli ultimi tempi - la questione dei senatori a vita ha assunto una dimensione controversa, e come tante altre questioni più futili su cui si esercita quotidianamente la politica italiana, è diventata oggetto di scontro e di polemiche. Lontana, lontanissima è l’epoca in cui un altro grande maestro di musica come Arturo Toscanini, o un poeta come Trilussa, o un archeologo come Umberto Zanotti Bianco - i primi senatori a vita della Repubblica, scelti da Einaudi, che nel suo settennato, per via della morte imprevista di tre dei suoi cinque, ne nominò otto - potevano frequentare il Senato tranquillamente, come e quando volevano, rispettati da tutti, senza neppure dover immaginare di incorrere nei fischi del centrodestra che avrebbero accompagnato Rita Levi Montalcini tra il 2006 e il 2008, quando a fatica, già sofferente per gli acciacchi della vecchiaia, si recava a votare per il governo Prodi.

La prima questione che si pose fu quella del numero: la Costituzione doveva intendersi nel senso che il Presidente della Repubblica, come organo istituzionale, oppure ogni Presidente, poteva nominare cinque senatori? E qui, anche agli albori della Prima Repubblica, si creò subito qualche attrito, più o meno esplicito, tra gli inquilini del Quirinale. Agli otto senatori di Einaudi, per dire, ne seguì uno solo di Gronchi. E quando anche Cossiga volle scegliere i suoi cinque, incurante delle perplessità degli uffici del Senato, in quel momento non proprio sguarnito di senatori di nomina, Scalfaro, che fu il suo successore, non ne nominò nessuno.

Bisogna considerare che le pressioni a cui i Presidenti erano sottoposti, man mano che la clessidra dei loro settennati scorreva, si facevano più forti. Ad Einaudi fu consentito di scegliere in piena libertà tra intellettuali, scienziati, letterati, artisti e scultori. Ma quando, ai tempi di Segni, il laticlavio cominciò a cadere sulle spalle di politici, certo anziani e togati, ma pur sempre politici, si affacciò la seconda questione: il Presidente è libero di scegliere chi vuole, senza preoccuparsi degli equilibri interni del Senato, o deve articolare la sua scelta senza turbarli? Saragat se la cavò affiancando al presidente della Fiat Vittorio Valletta e al poeta Eugenio Montale un democristiano di lungo corso come Giovanni Leone (che quando venne il suo turno scelse Fanfani) e lo storico leader socialista Pietro Nenni. Pertini chiamò Leo Valiani e Camilla Ravera, in nome della comune militanza nella Resistenza, un grande regista e autore di teatro, Eduardo De Filippo, e due accademici come Carlo Bo e Norberto Bobbio. Il quale, dopo un decennio di serena frequentazione di Palazzo Madama, divenne decisivo nella votazione all’ultimo sangue tra Giovanni Spadolini e Carlo Scognamiglio per la presidenza del Senato nel 1994, anno primo dell’era berlusconiana. In quel periodo Bobbio, dopo l’esperienza della candidatura forzata (e mancata) al Quirinale di due anni prima, frequentava meno. Raggiunto da una telefonata di Gianni Agnelli (nel frattempo, anche lui, divenuto senatore a vita per nomina di Cossiga), che tifava per Spadolini, in nome di una vecchia amicizia, il professore fu portato a Roma in fretta da un aereo della Fiat. Ma anche il suo voto non bastò a impedire l’elezione di Scognamiglio, che vinse per un voto.

Di tutte le tornate, certo la più difficile fu quella di Cossiga. Non solo per il problema del numero, ma anche perché l’allora più giovane presidente dovette scontare, per la prima volta, dei rifiuti. A dire di no fu Nilde Iotti, che preferì restare alla Presidenza della Camera, e più clamorosamente Indro Montanelli, che rinunciò con una spiritosissima lettera in cui accusava Cossiga, in pratica, di volergli legare le mani. Fino a quel momento non era mai successo che qualcuno si opponesse pubblicamente a un incarico così prestigioso. Il solo Toscanini, in passato, aveva preferito lasciare, a un certo punto, per ragioni di salute.

Ma fu l’unico precedente, come lo stesso Cossiga potè sperimentare qualche anni dopo. Nel 2002, e poi nel 2006, il Picconatore tentò inutilmente di lasciare il Senato. La prima volta perché, divenuto oggetto di un’inchiesta giudiziaria di Henry John Woodcock, allora sostituto procuratore a Potenza, sosteneva che Ciampi, che non poteva farlo, non lo aveva difeso. La seconda ce l’aveva con Andreotti, suo vicino di stanza a Palazzo Giustiniani, che con una delle sue battute lo aveva accusato di lavorare poco e «non fare neppure l’orario dei barbieri». Stavolta toccò a Franco Marini, appena eletto presidente del Senato, convincerlo a restare in carica. Lo fece in tutti i modi, pressandolo, supplicandolo, richiamandolo all’antica e comune militanza. Cossiga alla fine accettò, ma a malincuore, dopo aver chiesto un dotto approfondimento giuridico all’ufficio studi di Palazzo Madama: «Mi è stato risposto che l’unico modo di smettere di fare il senatore a vita è togliersi la vita», fu il suo velenoso epitaffio finale.

Marcello Sorgi


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