ebook di Fulvio Romano

venerdì 30 agosto 2013

Renzi e Letta, così simili, così opposti...

LA STAMPAweb

Italia

I Duellanti

Enrico e Matteo, così simili da non poter evitare lo scontro. Ma in stile democristiano

Ce li terremo per i prossimi venti anni, durante i quali l’uno dirà dell’altro che è «una risorsa», e nei momenti peggiori «una risorsa preziosa». Saranno loro due, Enrico Letta e Matteo Renzi, i D’Alema e Veltroni della prossima stagione, che è appena iniziata e dentro il partito democratico vede l’imprevisto trionfo della componente cattolica. I giovani laici, i postcomunisti, i Gianni Cuperlo e quel che c’è, assistono dai margini all’ennesimo duello della politica italiana, e sarà cordialmente sanguinoso. Oggi inaugurano una nuova fase del loro confronto a distanza parlando alle feste del Pd: Letta a Genova, Renzi a Forlì. Sono troppe le similitudini fra i due perché possano sopportarsi. Sono cattolici. Sono giovani di un gioventù programmatica, Letta giovane da una vita, da quando fu presidente dei Giovani democristiani europei fra il 1991 (cioè a 24 anni) e il 1995; più modestamente, Renzi fu segretario del Ppi fiorentino nel ’99 (naturalmente a 24 anni), dopo essere stato fondatore di un fan club di Romano Prodi. Letta continuò a essere giovane fino a diventare il più giovane ministro della storia repubblicana, e Renzi, che è un professionista dal ramo, è stato eletto sindaco di Firenze a 34 anni, cioè a un’età in cui in politica ci si accontenta di fare il portavoce del sottosegretario. Anche le differenze si scovano, però, e parecchie: intanto Letta ha ormai 47 anni quindi è giovane soprattutto nello spirito, mentre Renzi ne ha 38 e il titolo di giovane lo conserverà per lustri. Poi Letta è uno che ha fatto la carriera interna, da secchione, da bravo ragazzo che sa aspettare il suo momento, mentre quell’altro è il monellaccio che la carriera l’ha fatta a parolacce e calci negli stinchi, alla fiorentina però, a cielo aperto.

Alla fine, con ironia automatica, si dice che moriremo democristiani. Letta fu allievo di Beniamino Andreatta, che vide il ragazzo a Strasburgo (dove il babbo di Enrico insegnava) e se lo portò al ministero degli Esteri. Renzi faceva il boy scout e dirigeva la relativa rivista firmandosi Zac, è forse era un atto di stima per Benigno Zaccagnini. Si laureò in giurisprudenza con una tesi su Giorgio La Pira, il sindaco santo (e democristiano). Letta - che quanto a titoli universitari ne ha un elenco per il quale qui non c’è spazio - deviò un poco per amore del socialista ed europeista Jacques Deleros, e del resto il professore Cancemi del liceo Dante di Firenze sostiene che da ragazzo Renzi era un cattocomunista («e lui un fascista», rispose in classico stile l’ex allievo). Non c’è problema, si può andare avanti a lungo. Enrico e Matteo hanno tre figli a testa due dei quali, uno di qua e uno di là, si chiamano Francesco e non si fa altro che dire: in onore del Poverello. Hanno anche una dose di berlusconite, Enrico perché è milanista a nipote di Gianni, Matteo perché sarà anche della Fiorentina, ma è stato ad Arcore e da ragazzo alla Ruota della Fortuna di Mike Bongiorno. E hanno una dose di cupezza, Enrico perché ha sentito divampare il fuoco della passione politica quando il babbo lo condusse in pellegrinaggio in via Fani, mentre Aldo Moro era ancora prigioniero delle Br, Matteo perché ebbe la stessa fiammata quando alla sera mamma gli leggeva la biografia di Bob Kennedy, il fratello di John ammazzato a Los Angeles nel ’68.

Lo vedete il derby perfetto? Più si somigliano e più ci si scannerà. Chi dei due è più pop? Chi dei due è più fedele all’esempio di Mandela, del quale hanno il poster appeso sulle pareti dell’anima? Chi ha compreso più a fondo la forza rivoluzionaria del rock, Enrico con Phil Collins o Matteo con gli U2? Chi cita meglio Ligabue, il premier nel discorso della fiducia («bellezza senza navigatore») o il sindaco all’esordio della campagna per le primarie («non è tempo per noi»)? Chi è più fascinosamente toscano, il fiorentino («La Torre di Arnolfo a Palazzo Vecchio è più alta e soprattutto più dritta della vostra») oppure il pisano («sì ma il lungarno Gambacorti è il più bello del mondo»)? Per ora sono fermi alle sfide rusticane a prevalenza fair play: le bottarelle sono girate sotto tavolo, come prodromo di eleganti accoltellamenti futuri. Perché la verità ultima è che in mezzo a tanti parallelismi i due hanno vite che si scontrano perpendicolarmente. Letta è il pisano di genitori abruzzesi che studia in Francia e fa carriera a Roma, Renzi è il fiorentino che da lì non si schioda, né schioderà sino all’ultimo. Letta è il cattolico adulto che ha viaggiato e tempera la fede con l’uso di mondo, Renzi è lo scout che va a fare i ritiri spirituali coi gesuiti, ma se c’è da attaccar briga lo fa anche col vescovo. Letta è uno che dice di credere «moltissimo nel formalismo delle regole e agli statuti», Renzi è uno per il quale «la politica deve essere conquista senza reti. Come dice Clint Eastwood, se vuoi una garanzia allora comprati un tostapane». Letta è sempre stato convinto che la leadership sia un obiettivo da raggiungere con la concordia, tendendo la mano, avvicinando le idee e gli uomini distanti, Renzi è invece persuaso che la leadership sia un obiettivo da strappare affrontando la vita a petto in fuori, senza paura di niente e di nessuno, perché se non si ha la forza e il coraggio di battersi tanto vale restare in tinello. Letta è un signore dai tratti nobili, con la libreria colma, che fa esercizio di modernità presentandosi in maniche di camicia. Renzi è un simpatico teppista, con la parlantina veloce, che fa esercizio di modernità presentandosi in maniche di camicia. E pure senza cravatta.

Mattia Feltri