ebook di Fulvio Romano

martedì 27 agosto 2013

Non ci libereremo mai di Parmenide...

LA STAMPA

Cultura

Non ci libereremo mai di Parmenide

La scuola eleatica ha creato le nozioni di “verità” e “essere”

con cui continua a confrontarsi la filosofia contemporanea

Un luogo in cui discutere di filosofia ha un significato storico certamente importante è Elea, l’antica patria di Parmenide e Zenone, oggi chiamata con il nome latino di Velia. Ma esiste ancora, davvero, un legame tra quel che è oggi la filosofia e quel che poteva iniziare a essere nell’epoca degli eleati? Sicuramente sì. E forse il legame non potrebbe essere più stretto, anche non volendo aderire alle tesi di Martin Heidegger ed Emanuele Severino, teorici del «ritorno a Parmenide».

In un senso abbastanza ragionevole e forse non difficile da condividere, «filosofia» oggi come sempre è l’arte di trattare alcuni concetti fondamentali, trasversali a qualsiasi attività umana, come: realtà (o essere), verità, bene, e i loro derivati e sinonimi. E proprio Elea è il luogo in cui furono «scoperti» con Parmenide i primi due (essere e verità), e fu scoperta anche, con il suo allievo Zenone, la loro grande fragilità, e la loro tendenza a scomparire, o a trasformarsi nel proprio contrario, non appena «urtano» il linguaggio e il senso comune.

Nel suo poema Sulla natura, Parmenide crea in certo modo il vero (tò alethés) e l’essere (tò ón), ma ben presto i suoi seguaci scoprono che il linguaggio fa strani scherzi, posto a contatto con simili creature, ed ecco nascere i paradossi di Zenone, e in seguito le molte antinomie dei sofisti e dei megarici. Per districarsi tra queste antinomie, diventate estremamente importanti nella vita pubblica democratica, si afferma l’insegnamento di Socrate, da allora chiamato «filosofia», in quanto contrapposto alla sofistica.

È una narrazione, naturalmente. La vicenda fu senz’altro più complessa. Ma il percorso si legge molto bene nelle Lezioni di storia della filosofia di Hegel, in cui emerge in tutta chiarezza, per dirla parafrasando Nietzsche: la nascita della filosofia dallo spirito della democrazia, vale a dire: dallo spirito della dialettica.

Dunque Elea come momento germinale della razionalità occidentale, e del suo gioco di illuminazioni e ombre. Ma discutere in particolare di verità ed essere è oggi l’esercizio più d’attualità che si possa pensare, ai confini dell’ovvio. Come sappiamo, i giornali sono pieni di notizie che esplicitamente riguardano il vero e il falso, e la difficoltà di distinguerli, e i tentativi di far valere o nascondere il primo, o il secondo, rispettivamente o alternativamente. Perché sia così è facile capirlo, se ricordiamo la premessa molto semplice: che verità e menzogna, e i loro contenuti esistenti e giusti, o inesistenti e ingiusti, hanno, che lo si voglia o no, un enorme potere in democrazia, visto che proprio su di essi si basano le credenze individuali e collettive che guidano le decisioni pubbliche.

Proprio su questo punto però mi sembra particolarmente importante il confronto con Gianni Vattimo, le cui posizioni sono decisamente più zenoniane che parmenidee: stanno dalla parte della fragilità del tò ón e dell’alétheia, e non della loro forza «coraggiosa» (atremés, intrepida, dice Parmenide). Nel suo ultimo libro, Della realtà (Garzanti 2012), come in tutte le sue opere, Vattimo sostiene una posizione che si può dire «antirealista», ma occorre intendersi. È vero che la filosofia di Vattimo differisce da quella di Severino, che difende una visione «forte» dell’essere. Ma Vattimo (parlamentare europeo) non nega che vi siano cose, contro cui urtiamo ogni giorno: sarebbe perlomeno stravagante, da parte di un politico, e specie un politico molto attento a questioni di politica «sostantiva», materiale: dalla questione dell’Alta Velocità alla questione dei gay e delle minoranze discriminate. Non credo di essere d’accordo con Vattimo su diversi punti, ma certo è che la sua filosofia non è «antirealista» nel senso di negare la realtà (o di pensare che la realtà sia il prodotto della mente, o di «schemi concettuali»).

D’altra parte, lo scrive con molta efficacia Pier Aldo Rovatti, che con lui negli anni Ottanta lanciò il «pensiero debole»: «Realismo? Se significa giurare che il mondo là fuori esiste con quel che ne consegue, mi unisco subito al giuramento: non vedo però in giro nessuno contrario, o anche solo astenuto», come si legge in Inattualità del pensiero debole (Forum, 2011).

Il fatto che gli antirealisti in filosofia non esistono veniva segnalato precisamente da Parmenide, ma sembra entrare con difficoltà nella mente di chi discute oggi, specie in Italia, di realismo e antirealismo. E il fraintendimento si è esteso, pare, ben al di là delle dispute dei filosofi. Persino Luciano Violante, in Politica e menzogna (Einaudi, 2013) occupa svariate pagine a confutare certi antirealisti fantasmatici, senza preoccuparsi granché di chiarire chi siano e quali siano le loro ragioni.

Ma il fraintendimento è presto chiarito. Vattimo, se vogliamo, insiste sulla «debolezza» non dell’essere, bensì del concetto di essere. La «metafisica» di Vattimo (si intenda: le sue idee circa l’essere) è figlia della metafisica di Nietzsche, il quale, confermando l’energetismo della sua epoca, vedeva la realtà come enérgheia, energia. Nietzsche vedeva anche che fissare il volatile e inarrestabile movimento della realtà in parole e concetti, che si pretendono dire il vero e catturare l’esistente, significa «irrigidire» il pensiero, imprigionarlo in violente «scaffalature concettuali» (come scrive in Su verità e menzogna in senso extramorale).

Ora Vattimo toglie dalla visione di Nietzsche le componenti naturalistiche (dire come è fatta la realtà per un uomo del Novecento non è compito dei filosofi, ma dei fisici), e vi inserisce la visione heideggeriana ed ermeneutica dell’essere come tempo-storia: l’essere di cui discutiamo (non l’essere-realtà) è il divenire multiforme della tradizione in cui ci riconosciamo. Pretendere di fermarlo dicendone una verità ultima è un gesto violento (vedasi: la «scaffalatura concettuale» di cui sopra). Di qui l’idea che nel riconoscere la debolezza del concetto di essere (esistenza, realtà) vi sia la premessa dell’emancipazione dei più deboli, che non dominano le scaffalature concettuali (per così dire), e pertanto sono vittima delle loro menzogne passate per dura verità.

Non c’è molto da eccepire a questo quadro. Diceva Nietzsche: «non vi libererete mai di Dio (del potere) fino a quando siete sudditi della grammatica». Vero. Ma il gioco dialettico incomincia proprio qui, perché come insegna Zenone, nel tentativo di liberarsi della grammatica ci si trova spesso semplicemente in un’altra grammatica.

Franca D’Agostini


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