ebook di Fulvio Romano

sabato 17 agosto 2013

Tutti vogliono fare tutto... Addio galateo dei ghiacciai

LA STAMPA

Italia

Troppe cordate

Da ora le vette saranno a numero chiuso

Nessuno rispetta più il galateo dei ghiacciai

Ripensare. Appare come il verbo più appropriato per l’alpinismo, anzi per il turismo d’alta quota. I vacanzieri che salgono le montagne. Il numero di morti sono la tragica conseguenza di una forte concentrazione, un «mordi e fuggi» ormai consueto del periodo di ferie che s’infila nella statistica, nella semplice equazione più gente più possibilità di incidenti. L’«alpinismo di pista», come è stato definito da Reinhold Messner, per immediata corrispondenza con la montagna dello sci e delle masse, vive un paradosso: tanti decaloghi di sicurezza, eppure tanti incidenti. Questo andar per i monti, codificato e zeppo di possibilità di assistenza, di collegamenti internet per avere previsioni meteo è figlio di una «cultura del rischio e non del pericolo», come sottolinea la filosofa dell’Università di Lugano Francesca Rigotti. Il pericolo è oggettivo, è prerogativa della montagna e nulla può eliminarlo, mentre il rischio è soggettivo ed è sposato con l’altro concetto capovolto, quello di limite. «Era una gabbia, il limite - dice Rigotti -, ora è un obiettivo perfino da superare». Il rischio presuppone regole e responsabilità altrui. Quasi che nulla possa accadere se non «per colpa di...».

La montagna vive il ritorno dell’uomo che addomestica la natura, che sa prevenire e gestire. L’imponenza e la professionalità del soccorso alpino su tutte le Alpi segue proprio questa necessità di offrire sicurezza. Inconsciamente chi va in montagna non tiene in conto il territorio ostile che affronta. E quando una valanga si abbatte su una o più cordate, come accaduto pochi giorni fa sul Mont Blanc du Tacul, c’è chi si rifugia nell’imponderabile e chi va a caccia di una colpa. La realtà ci dice - proprio seguendo la legge statistica - che sul Tacul una grande quantità di cordate impegnate nello stesso momento aumenta la probabilità di incidente. Quel giorno c’erano 40 alpinisti sullo scivolo del ghiacciaio e almeno dieci tra loro in corrispondenza della seraccata che può lasciare alla gravità - in qualsiasi ora del giorno o della notte - un blocco di ghiaccio capace di provocare una valanga. Molto difficile prevedere quella caduta, ecco l’imponderabile, il pericolo che aumenta a dismisura quando sono impegnate insieme 15 o più cordate. Questo è il vero problema: i decaloghi, seppur sacrosanti, inducono a cancellare antiche pratiche dell’alpinismo che erano dettate dal buon senso. Una su tutte: non seguire lo stesso percorso (sia su roccia sia su ghiaccio) in fila, nello stesso tempo. Al pericolo oggettivo si aggiunge la presenza umana che aumenta la possibilità di frane o valanghe. Ogni estate sul Monte Bianco salgono circa trentamila persone seguendo le cosiddette «vie normali», le più facili: in Francia quella del rifugio Gouter e dei «Trois Mont Blanc», la cresta Nord Est che dal rifugio Cosmiques sale al Tacul, al Maudit e sulla vetta del Bianco. La cresta dove in quattro anni sono morte per valanga 19 persone in tre sciagure. Le «vie» del versante italiano sono più impegnative e i numeri si abbassano in modo molto significativo, così come gli incidenti.

Di fronte a questa folla di «turisti d’alta quota» il sindaco di Saint-Gervais Jean-Marc Peillex da anni ha intrapreso una politica di gestione per limitare gli accessi. Una sorta di numero chiuso mirato però sul rispetto dell’ambiente. Si è scontrato con le guide alpine, ma alla fine proprio lo spirito ecologista ha prevalso. Il nuovo e futurista rifugio del Gouter è regolato da una seria legge di prenotazione e non è tollerato bivaccare all’esterno.

Conciliare le esigenze di sicurezza, quella ambientali e l’attività delle guide alpine (sia francesi sia italiane) è impresa complicata. La concentrazione sulle «vie» del Bianco, così come in tutto l’arco alpino sulle montagne più famose, dal Cervino alle Dolomiti, garantisce il guadagno per le guide e per tutte le attività turistiche, dagli alberghi ai rifugi d’alta quota. C’è anche chi invoca «la libertà» per evitare una regolamentazione degli accessi, ma la motivazione è più prosaica, riguarda il guadagno. Negli Anni 60 un grande alpinista francese, Lionel Terray, definì se stesso e i suoi colleghi scalatori come «i conquistatori dell’inutile»: immagine romantica, perfino epica. I turisti di alta quota non conquistano nulla ma offrono l’utile a professionisti e aziende. Questo sviluppo economico della montagna arrampicata è arrivato anche in Himalaya, provocando addirittura violenza tra chi lavora per i turisti degli Ottomila e gli alpinisti professionisti. È accaduto qualche mese fa sull’Everest con l’aggressione a Simone Moro, Ueli Steck e Jon Griffith. Ora il governo nepalese sta correndo ai ripari con una sorta di decalogo per la montagna più alta del pianeta. Limiterà i record più strambi sottoponendoli a una commissione e regolerà i rapporti al campo base (nel periodo di salita tende con mille persone) attraverso coordinatori. La burocrazia è arrivata in alta quota.

enrico martinet


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