Italia
Troppe cordate
Da ora le vette saranno a numero chiuso
Nessuno rispetta più il galateo dei ghiacciai
Nessuno rispetta più il galateo dei ghiacciai
Ripensare. Appare come il verbo più appropriato per l’alpinismo, anzi per il turismo d’alta quota. I vacanzieri che salgono le montagne. Il numero di morti sono la tragica conseguenza di una forte concentrazione, un «mordi e fuggi» ormai consueto del periodo di ferie che s’infila nella statistica, nella semplice equazione più gente più possibilità di incidenti. L’«alpinismo di pista», come è stato definito da Reinhold Messner, per immediata corrispondenza con la montagna dello sci e delle masse, vive un paradosso: tanti decaloghi di sicurezza, eppure tanti incidenti. Questo andar per i monti, codificato e zeppo di possibilità di assistenza, di collegamenti internet per avere previsioni meteo è figlio di una «cultura del rischio e non del pericolo», come sottolinea la filosofa dell’Università di Lugano Francesca Rigotti. Il pericolo è oggettivo, è prerogativa della montagna e nulla può eliminarlo, mentre il rischio è soggettivo ed è sposato con l’altro concetto capovolto, quello di limite. «Era una gabbia, il limite - dice Rigotti -, ora è un obiettivo perfino da superare». Il rischio presuppone regole e responsabilità altrui. Quasi che nulla possa accadere se non «per colpa di...».
La montagna vive il ritorno dell’uomo che addomestica la natura, che sa prevenire e gestire. L’imponenza e la professionalità del soccorso alpino su tutte le Alpi segue proprio questa necessità di offrire sicurezza. Inconsciamente chi va in montagna non tiene in conto il territorio ostile che affronta. E quando una valanga si abbatte su una o più cordate, come accaduto pochi giorni fa sul Mont Blanc du Tacul, c’è chi si rifugia nell’imponderabile e chi va a caccia di una colpa. La realtà ci dice - proprio seguendo la legge statistica - che sul Tacul una grande quantità di cordate impegnate nello stesso momento aumenta la probabilità di incidente. Quel giorno c’erano 40 alpinisti sullo scivolo del ghiacciaio e almeno dieci tra loro in corrispondenza della seraccata che può lasciare alla gravità - in qualsiasi ora del giorno o della notte - un blocco di ghiaccio capace di provocare una valanga. Molto difficile prevedere quella caduta, ecco l’imponderabile, il pericolo che aumenta a dismisura quando sono impegnate insieme 15 o più cordate. Questo è il vero problema: i decaloghi, seppur sacrosanti, inducono a cancellare antiche pratiche dell’alpinismo che erano dettate dal buon senso. Una su tutte: non seguire lo stesso percorso (sia su roccia sia su ghiaccio) in fila, nello stesso tempo. Al pericolo oggettivo si aggiunge la presenza umana che aumenta la possibilità di frane o valanghe. Ogni estate sul Monte Bianco salgono circa trentamila persone seguendo le cosiddette «vie normali», le più facili: in Francia quella del rifugio Gouter e dei «Trois Mont Blanc», la cresta Nord Est che dal rifugio Cosmiques sale al Tacul, al Maudit e sulla vetta del Bianco. La cresta dove in quattro anni sono morte per valanga 19 persone in tre sciagure. Le «vie» del versante italiano sono più impegnative e i numeri si abbassano in modo molto significativo, così come gli incidenti.
Di fronte a questa folla di «turisti d’alta quota» il sindaco di Saint-Gervais Jean-Marc Peillex da anni ha intrapreso una politica di gestione per limitare gli accessi. Una sorta di numero chiuso mirato però sul rispetto dell’ambiente. Si è scontrato con le guide alpine, ma alla fine proprio lo spirito ecologista ha prevalso. Il nuovo e futurista rifugio del Gouter è regolato da una seria legge di prenotazione e non è tollerato bivaccare all’esterno.
Conciliare le esigenze di sicurezza, quella ambientali e l’attività delle guide alpine (sia francesi sia italiane) è impresa complicata. La concentrazione sulle «vie» del Bianco, così come in tutto l’arco alpino sulle montagne più famose, dal Cervino alle Dolomiti, garantisce il guadagno per le guide e per tutte le attività turistiche, dagli alberghi ai rifugi d’alta quota. C’è anche chi invoca «la libertà» per evitare una regolamentazione degli accessi, ma la motivazione è più prosaica, riguarda il guadagno. Negli Anni 60 un grande alpinista francese, Lionel Terray, definì se stesso e i suoi colleghi scalatori come «i conquistatori dell’inutile»: immagine romantica, perfino epica. I turisti di alta quota non conquistano nulla ma offrono l’utile a professionisti e aziende. Questo sviluppo economico della montagna arrampicata è arrivato anche in Himalaya, provocando addirittura violenza tra chi lavora per i turisti degli Ottomila e gli alpinisti professionisti. È accaduto qualche mese fa sull’Everest con l’aggressione a Simone Moro, Ueli Steck e Jon Griffith. Ora il governo nepalese sta correndo ai ripari con una sorta di decalogo per la montagna più alta del pianeta. Limiterà i record più strambi sottoponendoli a una commissione e regolerà i rapporti al campo base (nel periodo di salita tende con mille persone) attraverso coordinatori. La burocrazia è arrivata in alta quota.
enrico martinet