Cultura
Così è nato
il fronte del no
La rottura tra Renzi e Grillo, consumata ieri tra insulti e sceneggiate del M5S, non solo era nell’aria, ma attesa da giorni.
Renzi aveva compreso benissimo che il leader del Movimento 5 Stelle, uscito sconfitto dalla sfida elettorale contro il presidente del Consiglio, non mirava affatto a impostare un dialogo, per il quale non c’erano le premesse; piuttosto a dimostrare che Renzi e Berlusconi hanno un patto di ferro e le riforme istituzionali ed elettorali che vorrebbero far nascere sarebbero figlie loro, a dispetto di qualsiasi spirito costituente che richiederebbe il coinvolgimento di tutte le forze politiche e un compromesso sulle regole.
Malgrado ciò, il premier si era sottoposto al rito dello streaming, proprio per non dare pretesti al suo avversario e verificare di persona se davvero all’interno di M5s esistesse una frangia dialogante, diversa dalle minoranze espulse via via in questo primo anno e mezzo di legislatura, e in grado di influire sul leader, per spingerlo a un’effettiva collaborazione. Ciò che è accaduto dimostra che un siffatto spazio non esiste, e i membri della delegazione grillina che anche ieri avevano insistito per un secondo incontro con il Pd stavano semplicemente recitando il copione che un consumato uomo di spettacolo come il loro capo aveva appena finito di scrivere.
Con un nuovo obiettivo che, a rottura avvenuta, emerge chiaramente: Grillo adesso punta a mettersi alla guida del variegato “fronte del No” che nei prossimi giorni a Palazzo Madama proverà, o a bloccare la riforma del Senato, o almeno a impedire di approvarla con la maggioranza dei due terzi, richiesta dall’articolo 138 della Costituzione per evitare che il testo approvato debba essere sottoposto a un referendum popolare.
Si tratterebbe, per Renzi, o di una piena sconfitta, nel caso della mancata approvazione, o di una mezza batosta, che si faticherebbe a definire vittoria dimezzata, dal momento che una riforma varata con una stretta maggioranza alla prima delle quattro votazioni richieste, e con un corposo schieramento trasversale contrario che avrebbe il tempo per riorganizzarsi per i prossimi tre passaggi parlamentari, partirebbe evidentemente azzoppata.
Cosa poi possa unire, grillini, dissidenti del Pd e di Forza Italia, è impensabile, al di là della voglia comune di dare una bastonata a Renzi, che tuttavia già da sola basta. È noto che all’interno del Pd bersaniano, il partito della «non vittoria» del 23 febbraio 2013, la voglia di corteggiare il M5s si era manifestata fin dal giorno delle elezioni, con il tentativo abortito dell’ex segretario di mettere su un governo con l’appoggio più o meno esterno di Grillo. La delusione per quel fallimento si era ribaltata sulle elezioni presidenziali in cui il Pd fece fuori uno dopo l’altro i due suoi candidati più forti, Marini e Prodi, e sulla sorprendente campagna d’autunno grazie alla quale Renzi è approdato, prima alla guida del partito, e poi a quella del governo. Ma a cento giorni dal trasferimento dell’ex sindaco a Palazzo Chigi, il problema della sinistra interna Democrat non è più solo il rapporto con Berlusconi o quello con Grillo: è la sua stessa sopravvivenza in un Pd che, a detta dei politologi, si va trasformando in PdR, partito di Renzi. Pur di non morire renziani, gli ex, post o neo-comunisti, sono pronti a far saltare le riforme: e da questo punto di vista, lo dimostra la riscossa personale di Bersani, temono più la legge elettorale senza preferenze, che metterebbe le liste dei candidati in mano a Renzi, che non la battaglia del Senato, che ha un primo, un secondo, un terzo e un quarto tempo.
A uno schieramento che ha il cuore rivolto al passato, al vecchio modo familiare di essere della sinistra, a capisaldi come quelli che non si toccano i sindacati, né i giudici né le regole della giustizia (uno dei leader dei dissidenti è l’ex magistrato Casson), che si deve sempre discutere per decidere tutti insieme, non a maggioranza, e così via, si è affiancato negli ultimi giorni, con chiari propositi di alleanza, quello degli azzurri anti-patto del Nazareno capitanati da Minzolini e Brunetta: falange assai variegata anche questa, che pensa alle prospettive del centrodestra e ragiona già in termini post-berlusconiani. Ma non perché non amino più il loro presidente, o non gli riconoscano, malgrado tutte le difficoltà giudiziarie, politiche e aziendali che lo affliggono, le qualità per guidare il suo partito e lo schieramento di cui è ancora leader, seppure contestato. Semplicemente, non riescono ad accettare che il Cavaliere si sia rassegnato, non voglia più combattere e cerchi un appeacement, una sorta di accomodamento, per sé e i suoi amici e congiunti. Loro, che non sono affini o parenti, devono pur pensare al domani.
L’anima tradizionale del vecchio Pci, quella movimentista di Forza Italia e quella cabarettista dei 5 Stelle: dove potrà arrivare questa inedita alleanza non è facile immaginarlo. Spiace constatare che risulta composta dal passato recente, dal presente e dal futuro prossimo della politica italiana, senza averne, in alcun caso, le qualità dimostrate in altre occasioni. Anche per questo, Renzi farebbe bene a non sottovalutarla.
Marcello Sorgi