Cultura
Se scricchiola
la ricetta
tedesca
La ricetta tedesca per la ripresa economica comincia a non funzionare tanto bene nemmeno in Germania. Qualche segno di ripensamento comincia ad apparire anche là; ma altre certezze teutoniche occorrerà che siano poste in dubbio. Può essere l’occasione di aprire un discorso nuovo in Europa; purché da parte italiana non si ricada nei vecchi, e perdenti, cliché nostrani.
In un mondo dove perfino i grandi Paesi emergenti rallentano il passo, dove anche l’impulso che viene dall’economia americana è irregolare, la stessa Germania non riesce a trarre vigore dalle esportazioni, pur essendone il campione. Tanto meno può essere questa la via del recupero per l’intera area euro. Ha funzionato solo in Paesi piccoli, come i baltici.
La Germania sta cominciando a capire che oltre a piazzare ottime merci all’estero deve utilizzare meglio le risorse che già possiede. E’ una svolta importante quella della Bundesbank, che per la prima volta nella sua storia giudica opportuni ampi aumenti salariali nei prossimi rinnovi di contratti. Finora i sindacati erano abituati a sentirsi predicare ogni volta il contrario.
Sulle prime, pareva un pesce d’aprile in ritardo. Un caricaturista ora raffigura il direttorio della banca centrale con caschi gialli da metallurgici e pugno chiuso. Se la riderà soprattutto la direttrice del Fmi Christine Lagarde, che quando da ministro dell’Economia francese aveva proposto la stessa cosa era stata coperta di reprimende.
Già nel 2014 la crescita tedesca si è fondata soprattutto sulla domanda interna; c’è spazio per fare di più. Ai profitti alti delle imprese corrispondono pochi investimenti, l’attivo commerciale è enorme: un aumento dei consumi non ha controindicazioni, farebbe bene sia alla Germania sia ai Paesi che la circondano.
E, d’altra parte, come mai le imprese tedesche non investono, pur se sono quasi ai limiti dell’attuale capacità produttiva? Secondo i dettami della ricetta tradizionale, la «fiducia» non dovrebbe mancare: il bilancio dello Stato è più che a posto, i conti con l’estero vanno benissimo. Quello che manca, finora non lo si voleva vedere.
Se a Berlino tutti i politici ripetono che occorre prepararsi a un futuro di bassa natalità, nel quale saranno ancor più numerosi gli anziani, è assurdo che si investa poco. Può essere un grande piano di spesa pubblica in infrastrutture a rilanciare gli investimenti privati, consiglia ora il Fondo monetario, in un documento che i rappresentanti tedeschi hanno fatto di tutto per smussare.
Le stesse regole del patto di stabilità europeo che alla nostra politica paiono oppressive darebbero alla Germania ampio spazio. Gli basterebbe rispettarle alla lettera, invece di strafare. Ma qui il ripensamento non è arrivato. Occorre insistere, sfidando i dogmi di cui l’establishment tedesco si rassicura, sempre meno adatti a questa grande crisi che sta per giungere al settimo anno.
L’Italia, dato il suo alto debito, data la pessima qualità della sua spesa pubblica, non può concentrarsi sul chiedere margini di manovra per sé sul bilancio, come se si fosse dimenticata dei rischi che ha corso e che ha fatto correre nel 2011. Può invece puntare a dar verità alla promessa elettorale del neopresidente della Commissione Jean-Claude Juncker, un maxi-piano di investimenti.
I tedeschi arriveranno ad accettarlo solo riconsiderando il loro interesse nazionale. La mancanza di fiducia negli altri Paesi, tra cui l’Italia, gli fa per ora ritenere che continuare come adesso sia il male minore, gli fa inoltre ostacolare nuove misure espansive da parte della Bce. E se noi fatichiamo ad avviare riforme che sono prima di tutto a nostro vantaggio, seppur politicamente difficili, come facciamo a chiedere la comprensione altrui?
Stefano Lepri