ebook di Fulvio Romano

mercoledì 30 luglio 2014

L'Unità, da "Corriere del Proletariato" a "brand" glorioso e abbandonato (dal Pd!)

veltroni, D'AlemaLA STAMPA

Italia

Da “Corriere del proletariato”

a brand glorioso e abbandonato

Un’era tra Gramsci e girotondi: facce (contraddittorie) di un mito

Forse per capire che cos’è stata L’Unità vale ascoltare Aldo Tortorella, direttore del ’70 al ’75, anni in cui il giornale pesava monumentale, nel comunismo italiano: «Eravamo il giornale, ma anche il partito. Spesso la linea la imponevamo noi». Come quando - dopo le trionfali amministrative del ’75 - fu Tortorella a titolare «L’Italia è cambiata davvero». Poi non cambiava mai; ma questo è un altro discorso.

«Togliatti - ricorda un altro direttore, Alfredo Reichlin - voleva il Corriere della sera del proletariato, un grande giornale popolare che facesse compiutamente da contraltare alla stampa borghese, dando ai lettori oltre alla propaganda anche lo sport, la cronaca nera, il cinema. Lo è diventato, ma nel frattempo ha perso l’anima». Berlinguer invece «non mi dettava nulla, benché si considerasse un po’ un padre della patria».

Perciò uno spera che anche stavolta non sia il coccodrillo: il giornale è già tecnicamente morto un’altra volta, il 28 luglio del 2000 («il delitto perfetto», scrisse Michele Serra), e quella volta risorse, nel marzo 2001, con Furio Colombo direttore e Dalai editore. Ma proprio questo snodo fa capire che oggi è assai più dura: finita quell’Unità, il giornale perse completamente collocazione e i suoi lettori virarono altrove. Fu Colombo che il 25 giugno del 2006 titolò, a caratteri cubitali, «No», il giorno del referendum contro la riforma costituzionale di Berlusconi: «Quel che dobbiamo fare andando a votare no oggi e domani è impedire che la nostra Carta costituzionale sia manomessa da chi ha intimato di gettare il nostro tricolore nel cesso. Altrimenti quell’intimidazione continuerebbe a pesare su un’Italia degradata». Ecco, quell’Unità - imprevedibile, movimentista, antesignana del Nanni Moretti del «con questi dirigenti non vinceremo mai» - ve la vedreste oggi, nell’ultimissima stagione? Eppure conteneva in sé le ragioni editoriali del tramonto, cioè era già pronta a transitare altrove; anche fuori dalla sinistra ufficiale. Concita De Gregorio e l’era-Soru (l’editore coinvolto da Veltroni) la tenne viva, non con la pubblicità choc del giornale con la minigonna jeans (contestata dai tanti parrucconi, non solo «di sinistra»), ma con una linea apertissima. Infatti finì per non piacere a D’Alema, assai infastidito - fu la goccia - per un pezzo molto acre ma indovinato di Francesco Piccolo.

Questo per dire che s’è partiti da Gramsci, nel febbraio del ’24, dall’eroica chiusura e clandestinità sotto il fascismo, e s’è arrivati ai dirigenti fallimentari del vecchio Pd, la perdita di identità e di lettori, la freddezza del Pd attuale. Quello che è successo prima è invece territorio tra storia e letteratura. Nel ’45, quando la parte più cool era la redazione torinese (era Torino che aveva salvato l’Italia dal fascismo), in redazione giravano Pavese, Calvino, Spriano, Novelli, Vittorini, e c’erano anche divi come Raf Vallone, «cui tutti chiedono - scrive Guido Quaranta - ragguagli sulla floridezza del seno della Mangano»... Siamo in una sfera leggendaria, tutt’altro che «sovietica». Diverso è ciò che accade dopo, anche gli errori, tragici. Amaro che proprio Ingrao - il comunista sensibile al dissenso interno, per quei tempi - abbia scritto nel ’56 il tremendo editoriale pro Urss, all’indomani dei carri armati a Budapest. Oppure che Maurizio Ferrara, direttore nel ’68, fosse contestato dal Pci di Longo per un reportage sulle ragioni degli studenti che occupavano la Sapienza, o per eccessive licenze nella critica all’Urss, dopo Praga. Eppure, è la storia della sinistra. È il bellissimo titolo «E’ morto» (direttore Emanuele Macaluso) che abbiamo tutti noi, ragazzini, negli occhi il giorno della scomparsa di Berlinguer; ma anche il titolo stalinista «Chi vi paga?», rivolto ai dissidenti, radiati, del manifesto: la peggiore cultura del sospetto. È D’Alema, di cui si ricorda poco (nel 1991 cambiò il sottotitolo da «Giornale del Partito Comunista Italiano» a «Giornale fondato da Antonio Gramsci»); ma anche l’estroso Veltroni, che non fu L’Unità delle videocassette (questo lo dicono i detrattori), ma un giornale colto, raffinato, con le antenne.

Per noi leggere L’Unità era come litigare coi nostri genitori: ma erano pur sempre i genitori. O i nostri zii, quelli che t’insegnano le prime discolerie, come Pintor, vicedirettore e totale fuoriclasse, che faceva ammattire il direttore, Mario Alicata. Emanuele Macaluso ha ricordato che ancora a metà degli anni ottanta, quando già era in crisi, «L’Unità, un tempo la pupilla del partito, non era più neanche il dito mignolo». Oggi, semplicemente, non c’è proprio più la mano.

jacopo iacoboni


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