ebook di Fulvio Romano

giovedì 24 luglio 2014

"Muoiono solo gli stronzi" . La straordinaria vita di Mario Momicelli.

LA STAMPAweb


Cultura


Monicelli, dritto e rovescio

sul carattere degli italiani

Una biografia “fa i conti” con il regista che ha raccontato

(e ribaltato, con la sua stessa vita) gli stereotipi sul Bel Paese

C’è stato un tempo in cui si è dibattuto, e molto, sull’esistenza o meno del «carattere degli italiani». Mario Monicelli - il padre della commedia all’italiana, settant’anni di cinema e novantacinque anni di vita - sembra aver vissuto proprio per confermare ai dubbiosi che il «carattere degli italiani» esiste. Infatti, con la sua vita e le sue opere, lo tratteggia con puntigliosa nettezza, di dritto e di rovescio. Per questo, con un personaggio così, bisogna fare i conti. L’occasione ora è data dall’uscita presso Bradipolibri della biografia Muoiono solo gli stronzi. La straordinaria vita di Mario Monicelli (pp. 144,  15) che Roberto Bosio dedica all’artefice di oltre centocinquanta film, successi che hanno attraversato le generazioni, come I soliti ignoti e La grande guerraI compagni e L’armata BrancaleoneAmici mieiIl marchese del Grillo e altri ancora.

Muoiono solo gli stronzi è una rigorosa giostra che gira da subito velocissima: perché attraversare un secolo e oltre, dal 1915 al 2010, come ha fatto Monicelli, impone un passo vertiginoso. Tanto per cominciare, tracollano gli stereotipi di cartapesta su cui parrebbe reggersi la società italiana: a iniziare da quel «tengo famiglia» declinato da Monicelli - nei film e nella vita - con nuove regole d’ingaggio. Così, in Amici miei, il Sassaroli, proprietario della clinica in collina, spiega al sognante architetto Rambaldo Melandri che la famiglia «è una catena di affetti» e che, se proprio vuole prendersi sua moglie, deve prendersi anche, oltre alla signora, «tutto il blocco»: bambine, governante tedesca e il cagnone Birillo compresi. Sull’altro versante - nella vita vera di Monicelli - le cose corrono con simmetrico procedere. Il regista, che si sposerà due volte e a 61 anni si legherà con una ragazza che ne ha quaranta meno di lui, diventando padre per l’ultima volta a 73 anni, anche nel corso del secondo matrimonio ha diverse relazioni sentimentali. Così, in casa, si sentono telefonate come questa: «C’è Mario?». «Chi parla?». «La fidanzata» «E io sono la moglie, qui ci sono sedici camicie da stirare. Se vuole venire si fa a metà!».

Del resto anche nella sua famiglia d’origine si rispondeva come si poteva ai colpi di scena della vita e degli affetti. Tomaso, il padre del regista, è giornalista, originario di Ostiglia, il paese del Mantovano da cui proviene anche Arnoldo Mondadori. Anzi, i due all’inizio sono soci: fondano La Sociale, casa editrice da cui scaturirà successivamente l’Arnoldo Mondadori editore. Poi diventano cognati, poiché Andreina, la sorella di Tomaso, sposerà Arnoldo. Casa Mondadori sarà sempre accogliente verso i sei figli (due, Giorgio e Silvana, nati fuori del matrimonio) sparsi da Tomaso per il mondo. I rapporti tra i fratelli sono scarsissimi: tanto che a una prima il regista, ormai celebre, viene festeggiato con insolito affetto da un uomo che non conosce. Stupito gli chiede chi è, e questo: «Ma come? Sono Furio, tuo fratello!».

In compenso il cugino Alberto Mondadori sarà al suo fianco quando, prima di approdare a Roma, pubblica la rivista Camminare (con redazione nello scantinato milanese di casa Mondadori) e poi realizza il suo primo lungometraggio I ragazzi della via Pal, presentato nel 1935 a Venezia, nella sezione «Giovani».

Geniale, burbero («era il re dell’understatement, che io chiamo pudore» diceva di lui Suso Cecchi d’Amico), ama fare cinema «perché non è stare soli, davanti a un foglio», ma scaraventa senza remore divi e divine capricciosi. In compenso pilota istrioni come Gassman e Sordi e non perde la rotta quando Totò e Fabrizi - amici ma competitivi - davanti alla cinepresa di Guardie e ladri giocano a improvvisare, per vedere se l’altro sa stare al passo.

Monicelli ama procedere controcorrente: a 85 anni, quando gli altri anziani vengono accolti in comunità, decide di andare a vivere da solo. Dirige l’ultimo film a novant’anni, collaborando con registi giovanissimi. Sa andare, in ogni cosa, fino in fondo, e coglie così l’oscenità del potere, la brutalità della guerra, la tragedia che sta accanto alla commedia. Da quando suo padre si è ucciso sa che l’ombra della morte cammina accanto a ogni vita, ai sorrisi e alle lacrime di ogni giornata. Per questo, dice, la vita va vissuta sino in fondo: fino a quando «non smette di essere vera e dignitosa».

Giorgio Boatti