Cultura
Monicelli, dritto e rovescio
sul carattere degli italiani
Una biografia “fa i conti” con il regista che ha raccontato
(e ribaltato, con la sua stessa vita) gli stereotipi sul Bel Paese
Una biografia “fa i conti” con il regista che ha raccontato
(e ribaltato, con la sua stessa vita) gli stereotipi sul Bel Paese
C’è stato un tempo in cui si è dibattuto, e molto, sull’esistenza o meno del «carattere degli italiani». Mario Monicelli - il padre della commedia all’italiana, settant’anni di cinema e novantacinque anni di vita - sembra aver vissuto proprio per confermare ai dubbiosi che il «carattere degli italiani» esiste. Infatti, con la sua vita e le sue opere, lo tratteggia con puntigliosa nettezza, di dritto e di rovescio. Per questo, con un personaggio così, bisogna fare i conti. L’occasione ora è data dall’uscita presso Bradipolibri della biografia Muoiono solo gli stronzi. La straordinaria vita di Mario Monicelli (pp. 144, € 15) che Roberto Bosio dedica all’artefice di oltre centocinquanta film, successi che hanno attraversato le generazioni, come I soliti ignoti e La grande guerra, I compagni e L’armata Brancaleone, Amici miei, Il marchese del Grillo e altri ancora.
Muoiono solo gli stronzi è una rigorosa giostra che gira da subito velocissima: perché attraversare un secolo e oltre, dal 1915 al 2010, come ha fatto Monicelli, impone un passo vertiginoso. Tanto per cominciare, tracollano gli stereotipi di cartapesta su cui parrebbe reggersi la società italiana: a iniziare da quel «tengo famiglia» declinato da Monicelli - nei film e nella vita - con nuove regole d’ingaggio. Così, in Amici miei, il Sassaroli, proprietario della clinica in collina, spiega al sognante architetto Rambaldo Melandri che la famiglia «è una catena di affetti» e che, se proprio vuole prendersi sua moglie, deve prendersi anche, oltre alla signora, «tutto il blocco»: bambine, governante tedesca e il cagnone Birillo compresi. Sull’altro versante - nella vita vera di Monicelli - le cose corrono con simmetrico procedere. Il regista, che si sposerà due volte e a 61 anni si legherà con una ragazza che ne ha quaranta meno di lui, diventando padre per l’ultima volta a 73 anni, anche nel corso del secondo matrimonio ha diverse relazioni sentimentali. Così, in casa, si sentono telefonate come questa: «C’è Mario?». «Chi parla?». «La fidanzata» «E io sono la moglie, qui ci sono sedici camicie da stirare. Se vuole venire si fa a metà!».
Del resto anche nella sua famiglia d’origine si rispondeva come si poteva ai colpi di scena della vita e degli affetti. Tomaso, il padre del regista, è giornalista, originario di Ostiglia, il paese del Mantovano da cui proviene anche Arnoldo Mondadori. Anzi, i due all’inizio sono soci: fondano La Sociale, casa editrice da cui scaturirà successivamente l’Arnoldo Mondadori editore. Poi diventano cognati, poiché Andreina, la sorella di Tomaso, sposerà Arnoldo. Casa Mondadori sarà sempre accogliente verso i sei figli (due, Giorgio e Silvana, nati fuori del matrimonio) sparsi da Tomaso per il mondo. I rapporti tra i fratelli sono scarsissimi: tanto che a una prima il regista, ormai celebre, viene festeggiato con insolito affetto da un uomo che non conosce. Stupito gli chiede chi è, e questo: «Ma come? Sono Furio, tuo fratello!».
In compenso il cugino Alberto Mondadori sarà al suo fianco quando, prima di approdare a Roma, pubblica la rivista Camminare (con redazione nello scantinato milanese di casa Mondadori) e poi realizza il suo primo lungometraggio I ragazzi della via Pal, presentato nel 1935 a Venezia, nella sezione «Giovani».
Geniale, burbero («era il re dell’understatement, che io chiamo pudore» diceva di lui Suso Cecchi d’Amico), ama fare cinema «perché non è stare soli, davanti a un foglio», ma scaraventa senza remore divi e divine capricciosi. In compenso pilota istrioni come Gassman e Sordi e non perde la rotta quando Totò e Fabrizi - amici ma competitivi - davanti alla cinepresa di Guardie e ladri giocano a improvvisare, per vedere se l’altro sa stare al passo.
Monicelli ama procedere controcorrente: a 85 anni, quando gli altri anziani vengono accolti in comunità, decide di andare a vivere da solo. Dirige l’ultimo film a novant’anni, collaborando con registi giovanissimi. Sa andare, in ogni cosa, fino in fondo, e coglie così l’oscenità del potere, la brutalità della guerra, la tragedia che sta accanto alla commedia. Da quando suo padre si è ucciso sa che l’ombra della morte cammina accanto a ogni vita, ai sorrisi e alle lacrime di ogni giornata. Per questo, dice, la vita va vissuta sino in fondo: fino a quando «non smette di essere vera e dignitosa».
Giorgio Boatti