Italia
E la Boschi inchioda Matteo
all’eredità di Fanfani
Prima Amintore, poi De Andrè: un assemblaggio ad alto rischio
Prima Amintore, poi De Andrè: un assemblaggio ad alto rischio
Renzi solitamente evita più che può di citarlo, Fanfani; troppo evidente il rischio di finirci assimilato, che già s’è palesato perché l’analogia è persino banale, dunque attrae i commentatori: toscani entrambi, decisionisti entrambi, aspiranti rottamatori entrambi (quanto ai fatti, Fanfani fallì, per Renzi si vedrà), soprattutto entrambi sopra il 40 per cento (Fanfani addirittura al 42,35 nel 1958). Semmai Renzi cita La Pira, oggetto della sua tesi di laurea (l’ha fatto anche di recente, in Vietnam). Invece Maria Elena Boschi ha citato proprio Fanfani.
È stato nel momento più difficile, e rivelatore, del suo discorso in Senato, con il fiatone che le gonfiava il respiro per i buu che arrivavano dai banchi dell’opposizione; a quel punto il ministro, contestando la teoria della «svolta autoritaria» («è un’allucinazione, e come tutte le allucinazioni non può esser smentita con la forza della ragione»), ha detto: «Un grande statista, che è stato anche un grande presidente di questa assemblea, un riferimento per tante donne e uomini della mia terra, compreso mio padre, Amintore Fanfani, ha detto una piccola grande verità, “le bugie in politica non servono”». L’ha detto perentoria, troppo, tipico di quando ci sentiamo insicuri. Ma questa perentorietà viene percepita come arroganza, e infatti in quel momento i buu si sono fatti più forti.
È stata una piccola epifania. Se Renzi, spesso ricondotto a una specie di fanfanismo post-ideologico, non se n’è mai fatto carico (semmai cita Murakami e Dave Eggers), il riferimento è scappato fuori alla donna più esposta di tutta la sua squadra. Se il premier è fiorentino (come lo è d’adozione La Pira), la Boschi è della provincia di Arezzo, come Fanfani. Solo che la citazione s’impelaga dove il renzismo non vorrebbe: il passato e la Dc, oltretutto una Dc eccentrica rispetto alla linea De Gasperi-Moro-Prodi, una Dc con radici e sguardo (anche) a destra. Fanfani, tra l’altro, una volta preso il potere, altro che rottamatore: stette in Parlamento una vita, divenne - diceva Montanelli - il Rieccolo per antonomasia, impossibile da schiodare, uno che alla fine teorizzò «se uno è bischero, è bischero anche a vent’anni»...
Come scrive ne Il Renzi Mario Lavia, l’analogia renzismo-fanfanismo andrà valutata col tempo, anche se Fanfani fu «affine al premier per temperamento, oltreché per l’esprit toscano». Ecco, è come se le frasi di ieri della Boschi un po’ inchiodassero Renzi a tutto questo, il passato, e s’aggrappassero come autodifesa a questo esprit toscano. Per esempio quando s’è riferita a Vasco Pratolini («diceva che non ha paura delle idee chi ce le ha»). O quando ha usato «allucinazione» come sinonimo di falsità. Solo che nel suo discorso restavano giustapposti piani diversi: la disponibilità («tutto è migliorabile», «il governo ha sempre rivendicato l’ascolto e il confronto») ma anche i toni da fine del mondo (« è l’ultima chance per tutta la politica», «la vita del governo è legata alle riforme costituzionali»); le citazioni di Fanfani (un politico, oltretutto un cinico incredibile) e quelle, nientemeno, di De Andrè: il più libertario dei, come ha detto lei, «poeti».
Troppo, in troppo poco tempo; perché poi il ministro ha citato anche il De Andrè di Se ti tagliassero a pezzetti: «Sono trent’anni, come direbbe il poeta, che aspettiamo domani per avere nostalgia». Una frase molto letteraria, con la ripetizione - tre volte - dell’incipit «sono trent’anni che» («prendiamo a schiaffi l’opportunità di cambiare noi, per cambiare il Paese», «sprechiamo l’occasione di scommettere sul futuro»). È una canzone bellissima, ma dal finale amaro assai: «T’ho incrociata alla stazione/ che inseguivi il tuo profumo/ presa in trappola da un tailleur grigio fumo/ i giornali in una mano e nell’altra il tuo destino/ camminavi fianco a fianco al tuo assassino».
jacopo iacoboni