Nel «microcosmo» livornese, «autosufficiente e impermeabile alle dinamiche del mondo», l’affermazione del candidato grillino Filippo Nogarin era annunciata: «Ce l’aspettavamo tutti - dice il regista Paolo Virzì -. Ma se si guarda la vicenda con le lenti della politica nazionale, allora non si capisce nulla».
Secondo lei come è andata? «La crisi ha provocato nella città una crisi identitaria, che l’ha spinta verso un declino culturale e anche lessicale. Per capirlo bastava seguire il dialogo tra i due candidati, tutto in un clima di rissa, caos, approssimazione e insulti. Si cercava un capro espiatorio ed è stato trovato nel giovane consigliere Pd, con la giacchetta triste e gli occhialini da secchione. Lo hanno caricato di responsabilità, non poteva essere lui ad esprimere il generale bisogno di cambiamento». E il candidato Cinque Stelle? «Un simpatico ingegnere di Castiglioncello, un vitellone con la camicia di lino e i braccialetti colorati, uno che sembra appena uscito da un resort in Kenya. Il suo “tutti a casa” ha conquistato chiunque, anche la sinistra, perché a Livorno la destra vera non c’è mai stata...». Come si poteva evitare la sconfitta? «Livorno era una città industriale, sono cresciuto davanti a un orizzonte rigato dai pennacchi di fumo delle ciminiere. Adesso l’orizzonte è lindo, ma la riconversione non è riuscita, non si è capito che era su quello che bisognava puntare. Lo spopolamento della città è andato avanti, hanno vinto quelli che vogliono andare a letto presto. Sono amareggiato, anche con i livornesi, che si sono sentiti ganzi cedendo al degrado culturale. Ho letto una frase sulla vittoria, “è cambiata la musi’a e i sonatori”. L’ostentazione del dialetto dice tante cose».