Cultura
Le vite di Dora Maar
musa ribelle di Picasso
Mostra a Venezia sulla fotografa che denunciò la povertà
degli Anni Trenta. Immortalò la lavorazione di Guernica
Mostra a Venezia sulla fotografa che denunciò la povertà
degli Anni Trenta. Immortalò la lavorazione di Guernica
Far dialogare gli scatti fotografici di Henriette Theodora Markovic con i tanti prodotti della «fabbrica» di Mario Fortuny y Madrazo, è la chiave della bella mostra veneziana («Non solo Picasso», a Palazzo Fortuny, appunto), la prima in Italia, dedicata alla fotografa, meglio conosciuta con il nome d’arte di Dora Maar. Era nata a Parigi, da padre croato e madre francese, nel 1907: l’anno in cui Pablo Picasso realizzava Les demoiselles d’Avignon, venduta al Moma di New York, per ben 24.000 dollari, trent’anni dopo. Era il 1937, l’anno in cui Picasso in un paio di mesi di lavoro matto e disperatissimo, dipinse l’immensa tela dedicata a Guernica, la città sacra dei Baschi, appena distrutta dall’aviazione tedesca e italiana. La gestazione e la realizzazione dell’opera vennero registrate dall’obiettivo di Dora momento per momento, in una simbiosi assoluta fra i due: prezioso documento che smentisce le insinuazioni che accusano Picasso di aver rivenduto alla Repubblica spagnola, già in difficoltà, una tela dipinta per la morte di un torero, anni prima. Ma quel quadro è di per sé anche la testimonianza di una delle più intense storie d’amore vissute dal grande artista. Si erano conosciuti nel ’35, grazie a Paul Éluard, uno dei migliori amici di Pablo, al caffè parigino Les Deux Magots: lei indossava guanti neri guarniti di fiorellini rosa. Tolti i guanti aveva estratto un piccolo coltello dalla lama affilata, e aveva incominciato a piantarlo fra un dito e l’altro, sempre più velocemente. Il sangue tinse di rosso le dita affusolate: Pablo la guardava rapito, e le chiese in dono i guanti che avrebbe conservato per sempre, in una teca di vetro.
Non era un esempio di bellezza canonica, Dora, col suo volto irregolare, ma aveva fascino da vendere: «C’era nei suoi occhi una luce, uno sguardo straordinariamente luminoso, limpido come il cielo di primavera», raccontò chi la conobbe. Prima del fatale incontro, divenuto l’anno dopo una relazione tempestosa con quel genio possente e dominatore, che la amava e la tiranneggiava, Dora aveva già vissuto molte vite, a dispetto della giovane età. Fotografa, certo, ma anche pittrice, giornalista e soprattutto militante rivoluzionaria, che aveva assegnato alla fotografia un ruolo di provocazione culturale e di azione politica. Nello studio aperto fin dal 1930 con Pierre Kéfer, aveva condiviso la camera oscura con l’ungherese-parigino Brassaï, «l’occhio di Parigi», secondo la definizione di Henry Miller. Fu lui, Brassaï (di cui a Parigi si è da poco chiusa una bella personale), ad avvicinarla al movimento surrealista, sotto la cui influenza realizzò foto, spesso di composizione, che esposte a Venezia, ci appaiono, a distanza di decenni, e con tutto il materiale visivo a cui siamo avvezzi, di assoluta provocazione: uno schiaffo al perbenismo. Ma amò i poveri e i derelitti, e se ne prese cura, diventando testimone della loro condizione, tra Parigi, Barcellona, Londra: la crisi del ’29 mordeva in Europa, a distanza di qualche anno dall’America. I bambini cenciosi e denutriti di Waterloo Road, l’ex combattente mutilato costretto all’elemosina accanto al modellino di una nave, i gentlemen caduti in miseria che vendono calzini in strada o chiedono lavoro, i cortili abbandonati nel cuore delle città, la donna al finestrino di una roulotte di fortuna, il ragazzo seminudo che si riposa dalla fatica su una panca davanti a una saracinesca abbassata… Altrettante istantanee di un momento storico che oggi ci sembra talvolta di rivivere.
Il suo obiettivo fotografico era ormai l’occhio di una aderente alla sinistra estrema, nella drammatica stagione dello scontro sordo tra fascismo e antifascismo, comunismo e nazionalismo, ma anche delle lotte intestine allo stesso campo socialista, anarchico, comunista, come la Guerra di Spagna avrebbe tragicamente mostrato. Dora entrò in vari gruppi che lavoravano, da posizioni eversive, nei più diversi ambiti dell’arte, della fotografia, del teatro; ma finì anche per giocare consapevolmente il ruolo della grande seduttrice, stabilendo relazioni con personaggi come André Breton o George Bataille, il quale ebbe su lei una profonda influenza: Bataille teorico fra i massimi dell’erotismo, fa capolino, in effetti, nelle più azzardate foto di Dora, esposte in mostra.
Poi, il fatale incontro con Picasso, che la ritrasse in tele sempre più angosciose: è lei la «femme pleurante» che conosciamo in innumerevoli variazioni: da quel rapporto uscì provata, nel ’43, al punto da finire in casa di cura, salvata (nientemeno da Jacques Lacan) dalla tortura degli elettrochoc. Ma la contropartita della salvezza fu la perdita della creatività e un’ascesi misticheggiante («Dopo Picasso solo Dio», ebbe a dire). Visse fino ai novant’anni, spegnendosi nel 1997. «Non solo Picasso», certamente; ma Picasso fu l’acme dell’esperienza artistica e biografica di questa donna, una delle prime, rare intellettuali militanti del ’900 europeo.
Angelo d’Orsi