ebook di Fulvio Romano

giovedì 12 giugno 2014

Archetipi della politica italiana. Dal "novismo ottimistico" di Renzi al "novismo cupo" di Grillo

LA STAMPA

Cultura

Soltanto

l’uomo nuovo

ci salverà?

L’eterno ritorno nella politica italiana

dell’archetipo del Nuovismo: dai futuristi a Renzi

Ogni tanto arriva una novità: il bisogno di novità. A vent’anni dalla fondazione della (sedicente) Seconda repubblica, l’imperativo della politica e della vita italiana è (di nuovo) il rinnovamento. Declinato in termini soprattutto generazionali nel renzismo, in termini di classe nel grillismo, per cui l’incompetenza dell’esordiente è elevata a purezza; quella che dovrebbe essere un categoria ovvia della politica, e di ogni attività quotidiana, è invece offerta come virtù fondamentale ed esclusiva da destra a sinistra. Succede - come dice Mario Segni, protagonista delle scosse di due decenni fa con il referendum sul maggioritario - «perché il sistema italiano ha prodotto, e non soltanto nella storia più recente, fenomeni di inamovibilità e di immobilismo». Pensa alla Prima repubblica, con un partito solo al comando per mezzo secolo, al massimo al fianco di questo alleato o l’altro. Ma fa venire in mente il caso più sfolgorante e travolgente di nuovismo, quello di Benito Mussolini che a trentanove anni divenne presidente del consiglio sulla spinta di una propaganda contraria ai riti paludosi e formalistici del Regno uscito dall’Ottocento, e oltretutto accompagnata dal nascente ardore futurista per la rapidità e la rivoluzione tecnologica. «Trentanove anni, come Matteo Renzi oggi», nota Giampaolo Pansa, il quale al mito della positiva vigoria giovanilista crede poco: «Amintore Fanfani diceva di non rompergli le scatole con certi ragionamenti, che un pirla di vent’anni sarà pirla anche a cinquanta, e un furbo di venti a cinquanta avrà pure più esperienza».

Il parallelo è comunque impressionante. Lo Zang tumb tumb di Filippo Tommaso Marinetti e la Velocità astratta di Giacomo Balla sono le porte sul mondo che oggi si chiamano smartphone, app, google. È naturalmente pura suggestione, e uno storico di profonda cultura come Franco Cardini dice che «nulla mi immalinconisce e mi fa ridere quanto la facilità con cui si suggeriscono paralleli fra l’ultimo tirannello che passa e Adolf Hitler, uno che nel bene, pochissimo, e nel male, nell’infinito male, ha rappresentato un bel caso di rinnovamento». Non si sta uscendo dal seminato. È che Cardini sta cogliendo un punto importante. Innanzitutto, ed è scontato, che sovente «il nuovo non è buono e il buono non è nuovo», come disse Tommaseo dell’opera di un debuttante. Poi anche papa Francesco ha detto e ridetto che, se non si rinnova, la Chiesa finirà con l’evaporare. E, dice Cardini, «pensando alla gente che annega a Lampedusa, e davanti a luoghi comuni di destra - prima il lavoro agli italiani - e di sinistra - bisogna aiutare tutti - si sente ben distinta la domanda saggia che si pone Bergoglio. E cioè, non è che abbiamo sbagliato qualcosa nei sistemi di creazione e di distribuzione della ricchezza?». Ecco, spiega Cardini, come il nuovo sia una categoria sfuggente. Non abbiamo un appiglio temporale, dice Cardini pensando a oggi, all’ansia di esibirsi per innovatori, «ma i sacri principi dell’89 sanciti dalla Rivoluzione francese, o le quattro libertà enunciate dal presidente americano Woodrow Wilson - di pensiero, di parola, dal bisogno e dalla paura - hanno ancora un senso?». Quindi ci autonominiamo nuovi? E rispetto a che cosa? A che punto della storia siamo?

Siamo a un punto, qui e ora, dice scherzando Cardini, nel quale «il mio amico Matteo Renzi sarebbe un nuovo e bravo dittatore, sia detto fra virgolette, perché sa comandare e soprattutto è convinto di comandare meglio di chiunque altro. Anche in questo si ritiene nuovissimo». Ha dalla sua, spiega Andrea Romano, deputato di Scelta civica e docente di Storia contemporanea a Tor Vergata, «una promessa di rinnovamento ottimistica». Romano traccia la distanza fra questo tipo di rinnovamento («che poi fu quello di Silvio Berlusconi venti anni fa, perché si trascinava dietro gli anni Ottanta e cioè, cito, l’ultima volta che siamo stati moderni») e un rinnovamento millenaristico, ossia quello cupo di Beppe Grillo, ma anche dell’ultimo Enrico Berlinguer, che proponeva un rinnovamento del Pci passando dalla questione morale, dall’abbozzo di superiorità etica «che è una rinuncia alla politica». Il rinnovamento millenaristico, osserva Romano, «è un rinnovamento epifanico, preceduto da un atteggiamento tipico italiano: l’affidarsi completamente alla politica perché attraverso il suo rinnovarsi arrivi il rinnovamento del paese».

Fatto sta che «i meccanismi normali di rinnovamento non funzionano», dice Romano. È così non soltanto in politica, ed è evidente. Non funzionano innanzitutto dentro le nostre teste. Abbiamo una paura indiavolata del nuovo, il sovvertitore di ogni ordine costituito. «Mi hanno dato del matto perché ero presidenzialista, ma se mi avessero ascoltato, e avessero impiantato un presidenzialismo di stampo americano con il limite dei due mandati, il ventennio di Berlusconi sarebbe durato al massimo la metà», dice Mario Segni. La sua idea di maggioritario, di bipolarismo secco («la legge di elezione dei sindaci ha garantito un autentico e implacabile rinnovamento»), accolta con entusiasmo da chi usciva dal mondo bloccato della seconda metà del Novecento, e subito tradita, rende oggi di nuovo potente l’urlo dei rinnovatori. Non bisogna averne paura, dice Segni, «perché il rinnovamento non è un valore ma è una necessità. A volte può essere sbagliato, a volte un fiume che scorre può portare acqua sporca, ma non sarà mai acqua mefitica come quella stagnante».

Mattia Feltri


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