Cultura
Noi consumatori occidentali in queste settimane abbiamo avuto la conferma che, nell’epoca della conoscenza, amministriamo uno straordinario potere, la fiducia. E come tutti i poteri anche questo - copyright Uomo Ragno - viaggia a braccetto con una grande responsabilità.
Abbiamo ancora negli occhi il clamore per la vicenda Volkswagen, uno scandalo il cui costo complessivo si misurerà in decine di miliardi, con una portata che va oltre gli undici milioni di veicoli coinvolti, i 600 mila dipendenti e i 27 Paesi in cui la società ha le sue fabbriche. È di ieri la notizia riportata dal Guardian dell’apertura di un’inchiesta della Commissione europea sui televisori Samsung che - secondo i test di un laboratorio indipendente - nell’uso quotidiano consumano più elettricità di quanta non sia certificata dalle prove ufficiali. Il più importante produttore di tv al mondo si è affrettato a spiegare che il caso non ha nulla a che fare con quanto accaduto nel mercato automobilistico, ma la sensazione di un’analogia rimane. Sta nell’idea che - prodotti, concorrenza o variabili macroeconomiche a parte - il vero rischio al quale sono esposti oggi i marchi globali sia un crollo di immagine nella percezione o nella fiducia dei consumatori.
La rete e le piattaforme digitali, i social network, consentono alle aziende di parlarci direttamente, tagliando fuori gli intermediari tradizionali. Spesso le imprese hanno imparato a farlo meglio di quanto non lo sappiano fare i media, sono diventate media esse stesse. Ma lo stesso corto circuito si applica a loro, e basta un gruppo di consumatori, un’associazione, a volte addirittura un singolo, a metterle in crisi dal basso. Come Davide contro Golia.
Lo imparò a sue spese sei anni fa una linea aerea americana, la United Airlines. A scuoterla fu sufficiente un musicista country canadese, Dave Carroll. La compagnia, rea di aver rotto la chitarra di Carroll durante una trasferta e di non aver risposto alle richieste di risarcimento, fu ridicolizzata da una canzone in cui il cantautore raccontava l’accaduto. Il pezzo, pubblicato online, schizzò in vetta ad iTunes. Il video su YouTube ha ottenuto più di 15 milioni di visualizzazioni. Nei quattro giorni successivi alla pubblicazione del clip la società ebbe un calo in Borsa pari a 180 milioni di dollari. Il caso è diventato oggetto di studio. Oggi le aziende sono consapevoli di quanto sia rilevante e fragile la loro immagine. Monitorano i social network per misurare il sentimento degli utenti, spesso accolgono le richieste dei consumatori, che minacciano un voto contrario collettivo con il proprio portafoglio.
L’affermazione delle piattaforme di recensioni online, che permettono agli utenti di esprimere il proprio favore o le proprie critiche nei confronti di alberghi, ristoranti, negozianti, tassisti, non ha fatto che ingigantire il fenomeno. È la saggezza delle folle, l’effetto tsunami che la connessione di centinaia di milioni di persone, accelerata dal digitale, può provocare. Dopotutto Facebook, con 1,4 miliardi di cittadini, ha più abitanti della Cina. E i primi, a differenza dei secondi, possono mobilitarsi con pochi clic.Tutto bene dunque? Non è così semplice.
Non è detto che la moltitudine sia sempre saggia e che sappia autogovernarsi. Le recensioni possono essere fasulle, gli effetti delle campagne del tutto sproporzionati rispetto all’entità delle malversazioni o degli errori compiuti da chi finisce alla berlina. Non si tratta di rimettere il genio nella lampada né di rimpiangere il passato. Ma è qui che torna lo spazio per i mediatori, la cui autorevolezza non è mai stata necessaria quanto in un mondo così complesso. A patto che sappiano davvero dimostrare il proprio valore. E che aiutino lo sviluppo di una coscienza critica, senza la quale tutto si riduce all’urlo del tribuno.
Altrimenti, il potere della moltitudine di per sé non garantisce nulla. È la stessa folla che mandò libero Barabba.
@massimo_russo