ebook di Fulvio Romano

sabato 10 ottobre 2015

Staino: “Non ci vedo più Disegno Bobo a memoria ma la sfiga va combattuta”

LA STAMPA

Italia


Il vignettista racconta la sua malattia: “Mi aiuta il pc”

Arriva da Firenze in treno, seconda classe «perché la gente è più simpatica», al bar chiede un chinotto Lurisia ma non c’è e allora uno Spritz ma con il Select», un bitter vintage che per fortuna c’è e questo lo fa molto contento. Incontriamo Sergio Staino sulla terrazza della Basilica Palladiana di Vicenza, un tempio per chi ha una laurea in architettura come lui. Ma gli studi non c’entrano, Staino è qui per parlare di satira e malattia, nel suo caso una quasi cecità che lo accompagna dalla nascita del suo alter ego di carta, quel Bobo con gran naso e occhiali che ben incarna tante sue contraddizioni quotidiane, l’umorismo compatibile con la malinconia, l’ottimismo con la delusione.
C’è della satira feroce in questa cecità che colpisce un uomo che vive d’immagini? «Qui ha parlato anche una danzatrice senza braccia, e io sono un disegnatore che deve guardare e non ci vede. Ma bisogna reagire alla sfiga, sempre! Il cervello aiuta e anzi a volte inganna. Quando mi chiedono un autografo io faccio sempre un Bobino, ne ho fatti milioni e so che alla fine il disegno esce e a me sembra di vederlo. Finché un giorno un ragazzo ha avuto il coraggio di dirmi: “Guardi che la penna non le scrive”. A Barcellona ho addirittura visto una statua, e invece era un pilone di cemento». Tra l’altro, essendo ateo, non ha nessuno con cui prendersela... «Be’ qualcuno c’è, e non è solo l’ignoranza dei miei genitori che non si accorsero della mia situazione, nemmeno quando ho pestato e ucciso un pulcino. Io piangevo: “Non l’ho visto, non l’ho visto”, ma nessuno ci credeva. Dicevano che avevo un “occhio pigro”, finché un maestro più attento ha capito che avevo bisogno di occhiali. Mi diedero lenti fortissime ma un oculista famoso di Firenze me le montò al contrario, e la mia vista è andata a ramengo». Quando la situazione è precipitata, un po’ se l’aspettava? «Macché, nel ’77 ho avuto la prima rottura della retina dell’occhio buono e l’ho presa malissimo, come poi la prostata. Son cose che non ci s’aspetta, ce le insegnassero... Quando è successo già avevo moglie e una bambina, ma non ho pensato a che cosa avrebbe significato, per esempio, non guidare. Non disegnare più, quello mi angosciava, al punto che in ospedale facevo sogni di disegni stupendi che non avrei potuto fare. Dopo qualche settimana però il cervello ha cominciato a riprogrammarsi, mi sono fatto portare carta e matite e ho disegnato quel che intravedevo». Fino a quel momento era ancora un insegnante di educazione tecnica, come è diventato vignettista? «Da una situazione di grande sicurezza nel disegno - avevo un segno veloce ma anche conformista - a 37 anni ho dovuto reimparare. E quel mio vecchio segno un po’ superficiale diventava una conquista faticosa che mi ha fatto guardare a questo lavoro con maggior rispetto. Nei primi anni di Bobo si vede che il pennino quasi scava». E con Bobo è uscito dall’anonimato, come se lo spiega? «Oltre alla vista ci s’era messo anche il lavoro, ero insegnante ma precario, era il 10 ottobre del ’79 (36 anni fa esatti, ndr) e ho detto a mia moglie: “Bruna, oggi faccio questa striscia e la mando in giro, se fra un anno non è successo niente smetto”; ero comunista ma dai piani quinquennali ero già passato a quelli annuali… Avevo pensato di fare animali ma erano tutti occupati. Così ho avuto l’idea vincente, disegnare me stesso raccontando angosce e frustrazioni: politiche, sociali e familiari, che poi erano quelle di una generazione. I lettori ci hanno riconosciuto una serie di cose che erano loro o di quelli intorno a loro». La vista intanto peggiorava… «All’inizio ho mentito, quando ho firmato il contratto con Oreste del Buono a Linus dicevo che ci vedevo bene. I disegni migliori li ho fatti negli Anni 80 e 90, poi nel 2000 mi sono arreso al digitale. Un passaggio triste. La materia è un’altra cosa, mi mancava la china, la carta grossa e ruvida. Per me era una resa alla tecnologia che mi avrebbe tolto il piacere dell’arte. Mi sbagliavo. Nel computer ho scoperto un mondo ricchissimo e con il touch screen mi son trovato a disposizione una quantità enorme di immagini. Persino la penna digitale risente delle mie vibrazioni e certi giorni fa proprio il segno di Staino». Alla fine la malattia l’ha domata bene… «La quotidianità resta angosciosa, la malattia mi ha dilatato i tempi; prima in poche ore facevo pagine intere per l’Unità, ora per una vignetta mi ci vogliono ore, per una pagina due giorni. E poi ho bisogno dell’aiuto di ragazzi che - essendo di sinistra - pago il giusto, regolarmente e coi contributi, insomma non ne esco gratis da questa situazione. Sono pieno di richieste e dico sì ad associazioni di volontariato di ogni genere, lo faccio volentieri. Però quando mi dicono “che ti ci vuole, un disegnino…”, be’, invece mi ci vuole un sacco».
Sara ricotta voza