ebook di Fulvio Romano

martedì 25 agosto 2015

"Amici miei". Per fortuna c'era la supercazzola

LA STAMPA

Cultura

Per fortuna c’era

la supercazzola

Nel pieno degli Anni di Piombo, il film Amici miei

fu un segnale di speranza per i ragazzi che si ostinavano

a vivere da ragazzi, senza cortei e senza assemblee

Nell’agosto del 1975, e quindi alla metà esatta dei cupi Anni Settanta, uscì al cinema Amici miei e fu per tutti noi che eravamo ragazzi come una boccata d’aria pura, perfino un segnale di speranza. Perché ci sono tre modi per interpretare quel film. Il primo, e più immediato, fu quello di considerarlo un film comico. Il secondo, quello di considerarlo un film drammatico: le ragazzate del gruppetto di cinquantenni protagonisti erano in realtà – si disse – un disperato tentativo di esorcizzare l’angoscia del tempo che avanza e il terrore della morte. Siccome in quegli anni tutto doveva essere non solo «impegnato» ma anche leggero come una peperonata a colazione, fu questa seconda interpretazione ad affermarsi e a consolidarsi come ufficiale. Così si poteva mandare la pellicola anche al cineforum dove segue dibattito. C’è però, appunto, anche una terza possibile chiave di lettura, ed è quella che cercherò di illustrare qui.

Amici miei è firmato da uno dei maestri della commedia italiana, Mario Monicelli, ma nasce dal genio di Pietro Germi, che cominciò a concepirlo quasi dieci anni prima, quand’era sul set di un altro capolavoro, Signore e signori. Germi aveva pensato di ambientarlo a Bologna, città goliarda e godereccia quant’altre mai; poi si decise per Firenze, scenario comunque azzeccatissimo. Germi morì quando si stavano iniziando le riprese e Monicelli, grande signore oltre che grande regista, proseguì rispettando fedelmente il programma originario.

Adulti ma non troppo

Il film racconta la spensierata, anche se per certi versi sciagurata, vita di quattro vecchi amici: il capocronista della Nazione Giorgio Perozzi, interpretato da Philippe Noiret; il nobile decaduto conte Raffaello «Lello» Mascetti (Ugo Tognazzi); l’architetto Rambaldo Melandri (Gastone Moschin, l’unico che aveva partecipato anche al progenitore Signore e signori); il barista Guido Necchi, che ha il volto di Duilio Del Prete. A costoro si aggiungerà il professor Alfeo Sassaroli (Adolfo Celi), chirurgo serio e severo che resterà folgorato dalla levità del vivere del quartetto di amici.

Perché noi giovani ne restammo stregati? Forse anche e soprattutto perché nessuno ci aveva mai proposto – come modello di «adulti» – degli adulti che si comportavano esattamente come ci comportavamo noi: e per noi voglio dire noi ragazzi che ci ostinavamo a vivere da ragazzi, senza cortei e senza assemblee, e senza troppe preoccupazioni per il futuro. I protagonisti diAmici miei se ne fregavano della politica ma non erano neppure l’altro modello di adulto che ci veniva offerto, quello dell’uomo serio e compìto che «si è sposato e fa carriera ed è una morte un po’ peggiore» come cantava Guccini. In un mondo (quello appunto degli «adulti») in cui si frequentano soprattutto le persone che possono servirci a migliorare la posizione, a «diventare qualcuno», i quattro avevano conservato intatta un’amicizia vera, disinteressata. «Ma poi è proprio obbligatorio essere qualcuno?», dice il Mascetti alla fine del film.

Ci faceva impazzire vedere gente con l’età dei nostri genitori andare a schiaffeggiare i viaggiatori dei treni; vederli in auto che cantano «Bella figlia dell’amore / plon plon plon / schiavo son dei vezzi tuoi / plon plon plon». Amici miei insomma ci faceva sperare che un altro futuro ci era possibile. Ci piaceva perfino un modello di fallito come lo squattrinato Mascetti, che stordisce gli interlocutori con frasi inventate: «Antani, blinda la supercazzola prematurata con doppio scappellamento a destra». E la «zingarata». «Questa è la zingarata: una partenza senza una meta e senza uno scopo. Un’evasione senza programmi che può durare un giorno, due o una settimana», spiega il Perozzi, voce narrante del film. «Siamo zingari - dice il Mascetti - senza una meta, senza un domani».

I «vecchi» protagonisti

Il domani invece arriva, certo, e porta le sue inquietudini e un destino cui non si può sfuggire. Provo qualche spiacevole sensazione, ad esempio, nel fare due conti: quando vidi Amici mieiper la prima volta non avevo ancora compiuto diciassette anni ma «i vecchi» protagonisti del film erano tutti più giovani di quanto io non sia oggi. Celi e Tognazzi avevano 53 anni, Moschin 46, Noiret 45, Del Prete addirittura 37.

Un attimo prima dell’infarto che gli sarà fatale, il Perozzi dice: «Ho già sulle spalle un bel fardello di cose passate. E quelle future? Che sia questo, per non sentire il peso di tutto questo che continuo a non prendere nulla sul serio?». Già: che sia tutta una fuga dalla realtà, ’sto fatto che si ride, si scherza e si prova a godere del bello che ci può offrire l’esistenza? Il Perozzi ha un figlio che pare il suo esatto opposto, serio e affidabile, ma mai un sorriso, mai un lasciarsi andare. Un giorno gli grida, furente: «Ma quando cresci, babbo? Quando la smetti di fare l’imbecille?». E lui, il Perozzi, rimasto solo medita: «Io restai a chiedermi se l’imbecille ero io, che pigliavo la vita tutta come un gioco, o se invece era lui, che la pigliava come una condanna ai lavori forzati. O se l’eravamo tutti e due».

Non prendersi sul serio

La vita da adolescenti dei quattro cinquantenni del film non va mitizzata: i loro familiari, ad esempio, avevano buoni motivi per soffrire di tanta irresponsabilità. Ma se uno oggi riguardaAmici miei, credo non abbia dubbi su chi preferirebbe essere tra il Perozzi, che scherza perfino con il prete che lo confessa in punto di morte, e quel suo figlio: un ragazzo incapace di ridere ma anche di piangere di fronte al padre morto, un figlio che fa dire al genitore «quando penso alla carne della mia carne, chissà perché divento subito vegetariano».

Ecco che cosa ci ha lasciato il capolavoro di Germi e Monicelli: il valore dell’amicizia, e l’idea che si può vivere anche senza prendersi troppo sul serio.

Michele Brambilla


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