ebook di Fulvio Romano

martedì 15 luglio 2014

Nadine Gordimer, scacco all'apartheid

LA STAMPA

Cultura

Nadine Gordimer

scacco all’apartheid

È morta a Johannesburg, a 90 anni, la scrittrice premio Nobel:

coi suoi libri ha aiutato la battaglia di Mandela per un nuovo Sudafrica

Nadine Gordimer, aspetto fragile e occhi di ghiaccio, non ha mai cambiato, nella sua lunga esistenza, quello che era fin dall’inizio il progetto letterario: «scrivere nel modo più onesto e profondo della vita che mi circonda». In Sudafrica non voleva necessariamente dire scrivere di segregazione razziale, perché, come ha spiegato nei suoi saggi, i bianchi vivevano tra i neri come se fossero in una foresta. Bisognava uscire, superare le barriere. Lo strumento furono i libri, e i libri scoprirono che il mondo intorno era politico. Come risultato, almeno tre dei suoi romanzi furono messi al bando dal governo di Pretoria, ma la vasta popolarità internazionale impedì al regime razzista di andare troppo oltre. A differenza di altri autori, è l’unica che non abbia deciso per l’esilio, o vi sia stata costretta, come è accaduto per esempio a Breyten Breytenbach o Tom Sharp o Dennis Brutus.

Nata nel Transvaal da immigrati ebrei - padre lituano e madre inglese - cresciuta a Johannesburg dove si trasferì per l’università, lì è rimasta opponendo, nella sua grande casa bianca, una strenua resistenza al sistema dell’apartheid, fra decise prese di posizione, processi, marce della pace, vita quotidiana, due matrimoni (il secondo con il mercante d’arte Reinhold H. Cassirer, che si era rifugiato in Sudafrica per sfuggire al nazismo ed era nipote del filosofo Ernst Cassirer), due figli (Oriane che da tempo vive in Piemonte, nelle Langhe, e Hugo): ma soprattutto letteratura. Premio Nobel nel ’91, è diventata insieme con Nelson Mandela una delle immagini più belle del Sudafrica. Lì ha trascorso l’intera vita, e per quel Paese, il suo Paese, da lì ha scritto e viaggiato instancabilmente.

Pochi mesi fa, in occasione della traduzione italiana di Racconti di una vita, rivelò di essere malata di cancro. È morta a 90 anni, vissuti pubblicamente almeno dal ’49 (quando apparvero i primi racconti, col titolo, Faccia a faccia), da intellettuale «sovversiva», spiegando instancabilmente al mondo il suo Paese, l’ingiustizia del prima e il travaglio del dopo, le dure prove della lotta contro il regime bianco e quelle della democrazia. Partecipò alla fondazione del Congress of South African Writers, a maggioranza ovviamente nera, ebbe tra i suoi migliori amici Edward Said e Susan Sontag, e mal sopportando quelle che riteneva «pedanterie» dei bianchi liberali preferì sempre, quanto a sé, dichiararsi «radicale».

Insofferente per l’attenzione a suo modo di vedere morbosa per le difficili condizioni del nuovo Sudafrica, agitato da ondate di violenza («Dateci tempo», ripeteva spesso), nel 2006 fu vittima di una grave aggressione. Una banda di rapinatori fece irruzione in casa, la sequestrò in una stanzetta e si portò via tutto, anche la fede nuziale. Il giorno successivo lei si rifiutò di trasferirsi in una zona più difesa, un quartiere «bianco» di Johannesburg, ed espresse pubblicamente comprensione per gli assalitori. Era una donna del Novecento, avvezza alle durezze del «secolo breve», fedele a un’idea politica del vivere, e intransigente. Come i suoi libri, che pur nello stile limpido e asciutto non concedono nulla, rifuggono dal colore, dall’esotismo, non accarezzano i mal d’Africa.

Il poeta - e Nobel - irlandese Seamus Heany definì Nadine Gordimer una della grandi «guerrigliere dell’immaginazione». Inge Feltrinelli, che in Italia è stata la sua editrice di riferimento dal ’51, quando il sodalizio iniziò con la traduzione di Un mondo di stranieri, ricorda la sua capacità di «infondere coraggio e ottimismo anche nei momenti più difficili», l’autoironia e la passione civile. Nadine Gordimer parlava di un male profondo, la discriminazione razziale nei suoi effetti all’interno delle coscienze, sull’amore, sull’odio, sui rapporti famigliari; e dei comportamenti obbligati che univano vittime e carnefici. Il conservatore, che vinse il Booker nel 1974, mette in scena in una grande fattoria, luogo che dovrebbe essere di delizie, il rapporto tra un industriale bianco e l’amante, che però ha idee radicali. Mette in scena la frattura, quella che spesso passa tra genitori e figli, o altre volte come in Luglio (1981) tra «servi» e «padroni»: la frattura è per la Gordimer qualcosa che si avvicina alla verità della politica. Ed è in La figlia di Burger (1979) che la protagonista trova la «vera» definizione di solitudine: vivere, dice, senza responsabilità sociali.

Mario Baudino


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