ebook di Fulvio Romano

domenica 13 luglio 2014

Dopo il flop dell'Italia, ripensare il ruolo, anche economico, del calcio (Deaglio)

LA STAMPA

Cultura

Flop Italia, danno

anche economico

Nelle nostre città la prossima notte sarà una normale notte d’estate.

Di sicuro, non ci sarà alcuno sventolio di bandiere, né corteo d’auto che percorra a clacson spiegati le vie principali, nessun «botto» e nessun brindisi a coronare il sogno di milioni di tifosi di un’Italia che vince ancora una volta i Mondiali di calcio.

Si potrebbe osservare che i tifosi vivono di sogni e i sogni infranti sono un fatto quasi normale. Il particolare sogno infranto di questi Mondiali sembra, però, diverso: pare accompagnarsi alla fine di un’epoca nella storia del calcio italiano, sottolineata dalle dimissioni immediate del commissario tecnico, Cesare Prandelli, e del presidente della Figc, Giancarlo Abete dopo le sconfitte con la Costa Rica e l’Uruguay. Apre un discorso sul futuro del calcio, e più in generale dello sport, in Italia nel momento in cui nell’economia e nell’intera società italiana è diffusa la sensazione della necessità di cambiamenti profondi.

Non c’è dubbio che l’Italia sia uno dei paesi più «sportivi» al mondo e che il calcio sia di gran lunga lo sport più seguito, una parte importante del «sistema Italia», troppo importante per essere lasciata ai soli tifosi e ai soli addetti ai lavori. Il «partito degli sportivi» è sicuramente più numeroso di qualsiasi partito politico e proprio per questo il mondo politico è da sempre più attento alle esigenze dello sport che a quelle di altri settori potenzialmente più importanti per lo sviluppo futuro, come la ricerca scientifica. Complessivamente le attrezzature sportive non vanno in pezzi, le attrezzature scolastiche sicuramente sì, al punto di richiedere una legge apposita per le manutenzioni straordinarie.

Secondo un’indagine Istat relativa al 2012, oltre 12 milioni di italiani sopra i tre anni pratica attività sportive in forma continuativa, in aumento leggero, solo moderatamente frenato dalla crisi, rispetto all’inizio del secolo. I tre quarti degli interessati dichiarano di esserne «molto» o «abbastanza» soddisfatti. Di questi, oltre 8 milioni e mezzo fanno sport in luoghi a pagamento. I nuovi dati, che Istat e Coni, presenteranno congiuntamente giovedì, non cambieranno questo quadro.

La «produzione» di sport avviene attraverso milioni di persone, che se ne occupano spesso a tempo parziale e talora a titolo gratuito. Lo sport è economicamente rilevante per un amplissimo ventaglio di settori, dall’informazione alla fabbricazione di articoli sportivi, dalla formazione degli atleti alla vendita dei biglietti di accesso agli stadi, dalle scommesse – legali e non – al turismo sportivo. A questo va aggiunto il «consumo passivo» di sport, ossia la fruizione di spettacoli sportivi degli spettatori negli stadi e nelle altre manifestazioni, oppure attraverso mezzi di comunicazione che vanno dai giornali alla televisione, a pagamento oppure finanziati mediante la pubblicità. Arriviamo così intorno alla metà degli italiani. Il peso economico dello sport si presenta al tempo stesso ingente e sfuggente ma sicuramente importante.

E’ precisamente la sua importanza a far sì che qualsiasi progetto sul futuro del Paese richieda anche di porre obiettivi realistici – ossia con i vincoli dei conti e non solo con l’entusiasmo dei tifosi – alle dimensioni del fenomeno sportivo italiano in un tempo medio-lungo. Quando «grandi» potranno essere, come dovranno essere strutturati calcio, automobilismo, sci, nuoto e quant’altro nel giro di 10-20 anni, in un mondo in cui verosimilmente le competizioni saranno sempre più internazionali e coinvolgeranno un numero sempre maggiore di Paesi?

Un’analisi sommaria sembra indicare che, come molte altre attività produttive italiane, la produzione sportiva non venga realizzata all’insegna dell’efficienza, comunque questa sia misurata: molti Paesi nei quali lo sport attrae minori risorse, in termini assoluti e relativi, ottengono complessivamente risultati simili o migliori di quelli italiani, come hanno mostrato anche i Mondiali che stanno per concludersi. Dopo l’eliminazione dell’Italia dai Mondiali, qualsiasi riflessione su questo settore deve essere condotta alla luce dell’efficienza da ritrovare, giocata in tempi lunghi.

Lo sport ha attirato una grandissima quantità di investimenti pubblici e privati e, non foss’altro che per le sue dimensioni, non può sottrarsi a un’impietosa ridiscussione delle spese di investimento e funzionamento: non è possibile largheggiare sugli stadi e tagliare sulla sanità. Occorre, come in molte altre attività pubbliche, aumentare la produttività della spesa nel momento stesso in cui probabilmente bisogna fare i conti con un ridimensionamento della spesa pubblica anche in questo settore.

In queste condizioni che tipo di sport vogliamo? Come sarà possibile continuare a fare dello sport, e in particolare del calcio, una parte vitale dell’economia oltre che della cultura del paese? Ha senso «esportare» allenatori (sono 18 quelli italiani che allenano squadre straniere) e «importare» giocatori? Oppure bisognerebbe, in questo come in altri settori, occuparsi più dei giovani e meno delle star? Quanto spazio e quale ruolo devono avere le «tifoserie» organizzate delle diverse squadre? Quanto devono essere pagati giocatori e tecnici? Quale deve essere il carico fiscale del calcio? L’analisi economica può porre domande di questo tipo ma la parola deve passare subito alle forze politiche che propongono agli italiani le linee-guida per il Paese e – perché no? – ai milioni di italiani competenti in materia, compresi moltissimi lettori di questo giornale.

Mario Deaglio


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