ebook di Fulvio Romano

domenica 13 luglio 2014

Fosco Maraini e le donne del mare...

LA STAMPA

Cultura

Maraini e le donne del mare

«Certo, è vero, ho fotografato di tutto, come un matto, di sopra e di sotto, da destra e sinistra, dai quindici agli ottantacinque anni…». Quando disegna, tardivamente, quest’autoritratto con camera, Fosco Maraini, figlio del grande scultore e nume tutelare delle prime Biennali, Antonio, marito di Topazia Alliata, padre di Dacia, scrittore, antropologo, non poteva certo dimenticare il suo lirico, ma severo, reportage sulle giapponesi «Donne del Mare». Lui che al mondo nipponico dedicò tutto il suo amore e la sua cultura. Qui con fotografie spesso anche subacquee, che hanno amorosamente perduto come il senso della rigida prospettiva europea: sopra-sotto-davanti. «Affamato» di Giappone, dopo i guasti della guerra, quasi ad aggiungere un’appendice al suo celebre long-seller Ore giapponesi (che influenzerà pure il subacqueo Mayol e perfino un episodio di un James Bond, Agente 007 si vive solo due volte ), Maraini, se possibile sempre più stimolato da ragioni etnologiche, ritorna nel suo amato Giappone, nel 1954. Per sviscerare il capitolo «vernacolare» delle pescatrici giapponesi, nel paese degli Ama. Separato anche folkloricamente del resto del Giappone, in parte come il già studiato mondo degli «Ultimi Ainu», nel bianco universo ghiacciato degli orsi, questo bordo di terra è pressoché dominato dalla linea matriarcale delle «donne del mare»: abili pescatrici, non tanto di esotiche, decadenti perle alla Bizet, ma di carnose e ribelli awabi, molluschi gasteropodi detti anche «orecchie del mare» o d’altre alghe prelibate, degne spesso d’esser destinate al sacro pranzo d’insediamento dell’Imperatore, ma anche al goloso consumo popolare. «Giovani spesso bellissime, i loro corpi gentili e forti scivolavano nell’acqua con la naturalezza d’un essere che si trova nel proprio elemento». Donne-pesce con occhialetti da Torpedo futurista, sirene dal seno nudo e sodo, come un’arma marina. Certo, l’antropologo che lavora sul campo sa bene che quell’apparente eden intoccato (col sapore salmastro di Gauguin, come ricordò anche lo scrittore-pittore Carlo Levi, presentando la mostra originale) è al limite del definitivo sfarinarsi sociale. Del volgersi in un tragico turismo fittizio e volgare. Per questo gira (anche cinematograficamente) il paese degli Ami, consapevole che in alcuni angoli la dannazione è ormai già scesa, là dove «le pescatrici si spogliano in cambio di denaro e si mettono in posa secondo una tariffa oraria. Non sono più delle vere Ama, bensì dei tristi manichini». Invece in queste castissime ed immedesimate istantanee Maraini, pur nutrito di tutta la cultura iconografica delle stampe Ukiyo-e e dei virtuosismi di Hiroshige e Hokusai, lavora «di luce» come un analista che vuole vivisezionare il suo campione di mondo. Ma non riesce ad evitare un risultato estetico brusco talvolta e visionario. Perché qui, davvero, scendendo in una sorta di empatica apnea, a rischio d’asfissia, Maraini accarezza, lambisce, danza, sprofondando in questi «avamposti del regno dei misteri, dell’agguato della morte».

Manuela Gandini


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