Esteri
Dall’Everest al K2
è guerra tra gli sherpa
I nepalesi rivendicano il monopolio: no ai pachistani in parete
I nepalesi rivendicano il monopolio: no ai pachistani in parete
Lo slogan non c’è, ma è come se un’eco rimbalzasse dall’Himalaya al Karakorum, dall’Everest al K2: «Le montagne sono nostre e ce le gestiamo noi». La firma è degli sherpa nepalesi e in questa volontà di potenza c’è la consapevolezza del fiume di denaro che scorre tra ghiacci e rocce dei mitici Ottomila.
Gli sherpa, stufi di «mordere» poco e di essere «manovali» del cordame fisso per poter far salire e scendere i turisti d’alta quota rivendicano il loro ruolo che passa per i «no» agli alpinisti e per le richieste di maggiori garanzie e denaro nei confronti del governo nepalese. Richieste giustificate da quanto accaduto in primavera all’Everest quando una valanga uccise tredici sherpa al lavoro. Ma ora il mondo alpinistico si scontra con manifestazioni di prepotenza.
L’ultimo episodio viene dal campo base della seconda montagna del pianeta, il K2 (8611 metri), lontano dal Nepal e dove è impegnata la spedizione italo-pachistana per i 60 anni della conquista italica che ha portato in vetta nel 1954 Achille Compagnoni e Lino Lacedelli. I pachistani hanno il supporto del Comitato EverestK2Cnr di Bergamo guidato da Agostino Da Polenza. E proprio il manager-alpinista lancia la sua denuncia dal Pakistan. «Ciò che temevo si è avverato». Il cosa è il «no» degli sherpa nepalesi a pagare il lavoro dei pachistani in parete. Ancora Da Polenza: «Quando Taqi, il capospedizione pachistano, ha chiesto che il loro lavoro fosse riconosciuto, esattamente come gli sherpa pretendono in Himalaya, i baldi figli dell’Everest hanno opposto un rude diniego. E hanno aggiunto “magari attrezziamo noi in alto ma di soldi non se ne parla”». Al K2 ci sono tredici spedizioni, tra queste anche due commerciali. Il coordinamento è pachistano «ma l’anima organizzativa è nelle mani sicure di associazioni nepalesi che qui portano sherpa e struttura». I pachistani hanno già attrezzato la parete con due chilometri di corde, chiodi e fittoni nella roccia fino a campo 2, a 6800 metri. Gli italiani lavorano con loro e i polacchi si sono aggiunti. Gli altri hanno chiesto il conto per poter usare le corde fisse e hanno pagato. Gli sherpa no. Da Polenza: «Ora mi viene in mente che se qualcuno, non un pachistano, ma un “nobile” alpinista europeo, americano o giapponese, opponesse ai nepalesi il rifiuto a pagare il loro lavoro sul percorso per l’Everest o il Lhotse, o anche solo osasse ostacolare il lavoro sull’Ice Fall ed ugualmente salisse verrebbe preso a piccozzate, pugni e a meno dolorose male parole. Chiedere a Simone Moro».
L’Ice Fall è il lungo ghiacciaio tormentato che occorre percorrere per la salita a Everest e Lothse dalla parte nepalese. La violenza di cui parla Da Polenza non è un’ipotesi ma è quanto accaduto agli alpinisti Moro, Jonathan Griffith e Ueli Steck un anno fa. Non usarono le corde piazzate dagli sherpa ma furono aggrediti, malmenati e Moro riuscì a schivare una coltellata.
Quanto accade oggi sulle montagne più alte del pianeta era già avvenuto alla fine dell’Ottocento a Chamonix, ai piedi del Monte Bianco. Allora un prefetto sciolse la Compagnia delle guide francesi che monopolizzavano le salite. Perfino la libertà degli alpinisti sul Bianco era impedita. Il mercato in Himalaya e Karakorum è sempre più ricco e l’imbuto di un monopolio garantirebbe profitti elevati. Già Moro parlò della necessità di un tavolo di trattativa anche con i governi. Ora Da Polenza rilancia: «Prima che sia troppo tardi».
enrico martinet