ebook di Fulvio Romano

venerdì 11 luglio 2014

La selezione darwiniana delle Pmi

LA STAMPA

Economia

Ma chi è riuscito a resistere

adesso cresce più dei grandi

Negli ultimi 7 anni 8000 chiusure, una selezione darwiniana

Una selezione «darwiniana», da cui emergono 1200 super-pmi, forti a dispetto di ogni avversità. Più altre 7500 che crescono poco, ma hanno le carte in regole per avere successo. Occorre un premessa: nel 2007, anno zero della grande crisi, in Italia c’erano 55.709 piccole e medie imprese con fatturato tra 5 e 50 milioni di euro. Anno dopo anno, sotto le macerie del terremoto economico-finanziario a fine 2013 se ne contano 8841: il 16% delle Pmi ha cessato la propria attività. Significa 120 miliardi in fumo e 405 mila posti di lavoro che non ci sono più. Ma accanto alle macerie, le 46.868 che hanno resistito (l’84,1%), pur tra tensioni finanziarie crescenti, negli anni più difficili registrano una crescita cumulata del 26%, il 4,8% medio annuo.

La prima rilevazione dell’Osservatorio sulla competitività delle Pmi, promosso dal Knowledge Center della Sda Bocconi, si spinge più in là. E individua quel manipolo di «eroi», quel gruppo - purtroppo non proprio numeroso - di piccole imprese di successo. I ricercatori della Bocconi guidati da Federico Visconti hanno filtrato le Pmi secondo tre requisiti. Crescita positiva durante la crisi (è così per la metà delle imprese), una redditività superiore alla media (e qui ne resta il 3,2%). L’ultimo filtro: avere un rapporto tra debito e mol inferiore alla media. Il club si circoscrive così a 1165 Pmi, il 2,5% del totale. Sono aziende che nella crisi sono cresciute del 77% (contro il 26%) ossia del 12,4% medio annuo (anziché il 5%), con una redditività operativa pressoché doppia. Sono per lo più nel Nord-Est del Paese, Veneto dunque, ma anche Emilia Romagna, Piemonte e Liguria. Nella maggior parte hanno almeno 10 anni di storia alle spalle, una struttura proprietaria concentrata, dimensioni maggiori (il 37,9% si concentra nella fascia di ricavi tra 5 e 10 milioni di euro) e si concentrano in settori quali il manifatturiero (sono il 40,3% delle aziende di successo grazie all’export, per lo più meccanica e alimentare) e il commercio all’ingrosso. I dati comuni? La capacità di internazionalizzarsi, di fare innovazione, di registrare marchi e brevetti. Non sono le uniche. Ci sono altre 7500 Pmi che hanno una struttura molto solida e hanno performance reddituali sopra la media, ma ancora non crescono come potrebbero: +2,9% negli ultimi 3 anni, contro il +6,1%. «Da loro - spiega Fabio Quarato, tra i curatori dell’Osservatorio - arriva un messaggio positivo sul rilancio del nostro tessuto delle Pmi, perché significa che in tutto ci sono 9 mila Pmi che sembrano avere le carte in regola per il rilancio».

Al di là dei casi di successo effettivo o potenziale, resta una platea di Pmi sopravvissute che resistono. Ma tra cui crescono pure (dal 17,1 al 26,3%) le imprese in difficoltà finanziaria con un rapporto debito/mol superiore a 7,5 volte. E sale l’inquietudine. Al punto che, racconta Alberto Baban, presidente di Piccola Industria di Confindustria, «non c’è più il problema di passaggio generazionale, una tremenda novità. Il titolare che normalmente passa al figlio, in questo momento ha paura e non ci pensa. Non è mai successo di ricevere tante offerte di aziende in vendita». Si vive alla giornata. «L’aspetto positivo del sistema produttivo italiano è la capacità di reagire, di non scivolare nel declino - osserva Gregorio De Felice, capoeconomista di Intesa Sanpaolo - ma da questi dati emergono anche elementi di grande preoccupazione. Oltre al 16% delle Pmi che ha già chiuso, le imprese in perdita sono salite dall’11 al 16,7%, quelle con una redditività inferiore al 5% dal 18,2 al 28,6%. Temo che la selezione non sia finita».

francesco spini


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