ebook di Fulvio Romano

sabato 7 giugno 2014

Ma quant'è diversa l'America che esce dalla recessione?

LA STAMPA


Economia


La svolta Usa: recuperato

il lavoro bruciato dalla crisi

Gli impieghi sono tornati a quota 138 milioni, come prima del crac Lehman

Sarà stata la coincidenza con il D-Day, ma la giornata di ieri passerà alla storia anche come il «break even point» della crisi, ovvero il momento nel quale i posti di lavoro persi per colpa dello tsunami finanziario hanno eguagliato quelli creati con la successiva ripresa. Il bollettino del governo parla chiaro, 217 mila posizioni create a maggio, con un tasso di disoccupazione fermo al 6,3% e un totale di 8,7 milioni di nuovi posti creati, tanti quanti ne erano stati persi dal fallimento di Lehman Brothers. Ma al di là delle formule algebriche, occorre prudenza, specie nel dire che è stato posto rimedio alla crisi. Se non altro per una questione di mancato guadagno, come si usa dire in giurisprudenza, perché se Wall Street non fosse esplosa con i mutui subprime e la contrazione del credito, la locomotiva americana avrebbe proseguito sul binario della crescita, anziché bruciare 19.200 miliardi di dollari di ricchezza. Oltre ai mutamenti nella struttura economica, occupazionale e sociale del Paese che ne hanno modificato di fatto il Dna.

Più braccia disponibili

A gennaio del 2008 le aziende private contavano 138,365 milioni di posizioni, oggi sono 138,463 milioni. Il punto però è che dal 2007 ad oggi la forza lavoro del settore privato è passata da 232,6 milioni di unità a 247,4 milioni. Quindi si ha lo stesso numero di lavoratori di sei anni fa, ma 15 milioni di persone in più in cerca di occupazione. In aprile inoltre un dipendente ha avuto in busta paga settimanale mediamente 838,70 dollari. Utilizzando il potere di acquisto attuale nel gennaio del 2008 lo stipendio era di 818,31 dollari. In sei anni quindi l’aumento ponderato con l’inflazione è stato di appena 20 dollari a settimana.

Produrre non è più come prima

La più grande recessione che la storia contemporanea ricordi ha cambiato la struttura produttiva della Corporate America, o meglio la ripresa non è stata lineare. Tra i comparti che hanno continuato a crescere ci sono «health-care» ed energetico, grazie anche alle politiche dell’amministrazione Obama, mentre quelli che hanno registrato le contrazioni più pronunciate sono edilizia e immobiliare. Un boom è quello delle attività legate a petrolio e gas naturale tanto da far parlare di «corsa all’oro nero». Il manifatturiero, nonostante abbia recuperato 363 mila posti di lavoro dalla fine della recessione, soffre ancora la concorrenza asiatica, specie per le attività ad alta intensità di lavoro.

Borsa di nuovo rampante

Nonostante la crisi sia partita da Wall Street, è stata proprio Wall Street ad uscirne per prima, e anche in forma. I listini azionari Usa viaggiano ogni giorno su nuovi massimi, si registra un numero crescente di Ipo, mentre il comparto bancario è tornato a fare il pieno di utili, e i manager il pieno di bonus. Dopo il sacrifico Lehman i «too big too fail» sono rimasti tali, la riforma finanziaria è un’opera incompiuta, ed è tornata una certa passione per il rischio.

Il bazooka di Stato

In questi sei anni è stato imponente l’intervento dello Stato per risollevare le sorti del Paese. Tra Tarp, piani di stimolo e Qe - tutti interventi diretti di Stato o Federal Reserve sul mercato - si sono iniettati oltre 5 mila miliardi di dollari. Un aiuto importante ma troppo a lungo orfano di quel meccanismo di trasmissione sull’economia reale. La crescita è tornata così a livelli pre-crisi, ma a pagare è stata Main Street, ovvero le Pmi.

Il sorpasso cinese

Alla fine di aprile un rapporto della Banca mondiale annunciava il sorpasso, entro fine anno, dell’economia cinese su quella Usa, già retrocessa dalle agenzie di rating dall’Olimpo della tripla A. Si è gridato alla fine di un’egemonia economica, quella Usa, che durava dal 1872. Tuttavia si deve tener conto che la Cina ha 1,4 miliardi di abitanti e quindi una ricchezza pro-capite ben inferiore a quella Usa, oltre a tutte le imperfezioni in termini di trasparenza e diritto. Se si tratti di sorpasso lo dirà il tempo, senza dubbio è l’inizio di una nuova fase, figlia di una crisi difficile da recuperare, ma da cui è possibile ripartire.

francesco semprini


LA STAMPA


Cultura


Ma i numeri non raccontano

tutta la storia

Sembra la trama di un film di fantascienza. Un supereroe dato per morto nel 2008 ritorna in vita sei anni dopo grazie alle cure miracolose di uno scienziato burbero e barbuto. Ma troppo tempo è passato e il supereroe fatica a trovare un ruolo in un mondo che non riconosce più. Riuscirà il nostro eroe a ritrovare la forza del passato o sarà condannato a rimanere anonimo per il resto dei suoi giorni?

Purtroppo Hollywood un film di science fiction sull’economia non lo farà mai, ma il dilemma della crescita americana è di proporzioni sovrumane. I numeri sulla disoccupazione farebbero pensare a un momento d’oro per gli Usa, il ritorno trionfale del supereroe dell’economia mondiale e lo stimolo mastodontico amministrato dal burbero ex capo della Federal Reserve Ben Bernanke.

Le cifre di venerdì hanno persino dato ai secchioni delle statistiche un numero da gustare, commentare e twittare: dopo la crescita di maggio, il numero di americani impiegati è a un nuovo record. Ha infatti sorpassato il precedente primato del gennaio 2008, prima del fallimento di Lehman Brothers, della Grande Recessione e della distruzione di milioni di posti di lavoro.

Allora tutto a posto? L’America di nuovo in sella dopo la caduta del 2008? Come non dicono a Hollywood: not so fast, non andare troppo veloce. Dietro ai numeri, ai titoloni e all’ottimismo degli investitori si nasconde una realtà tortuosa, complicata e sgradevole.

La crisi e la recessione che la seguì non hanno solo rallentato l’economia americana, l’hanno cambiata in maniera profonda e forse permanente. I patiti dei fumetti lo sanno benissimo: quasi tutti i supereroi diventano tali dopo un mutamento genetico o qualche altra indelebile trasformazione.

Nel nostro caso, il cambiamento è sia quantitativo sia qualitativo. Se guardiamo ai numeri, il record di ieri non è granché. E’ vero che circa 138 milioni di americani e americane ora hanno un lavoro - più di qualsiasi altro periodo nella storia degli Usa. Ma è anche vero che la crescita nei posti di lavoro non ha tenuto il passo con l’aumento nella popolazione. L’economia americana dovrebbe impiegare altri 7 milioni di persone per chiudere quel gap, secondo l’Economy Policy Institute, un centro di ricerca di Washington.

Il «record» è effimero quanto inutile a prendere la temperatura del mercato del lavoro statunitense. Un dato molto più importante è la percentuale di americani che ha un lavoro o dichiara di essere in cerca di lavoro, la cosiddetta «participation rate». Quel numero è al livello più basso negli ultimi 30 anni. Un record anche quello, ma negativo.

Paul Ashworth di Capital Economics lo attribuisce all’effetto-crisi che ha convinto molti americani a smettere di cercare lavoro e di accontentarsi di contratti part-time e impieghi occasionali. Il corollario è che la recessione ha spinto milioni di persone ai margini dell’economia e della società. Le conseguenze e i costi di quest’opera di rottamazione umana, che mai si era vista nel dopoguerra, potrebbero essere enormi.

Ma non è solo la quantità di lavoro che è diminuita negli anni bui del dopo-crisi. Anche la qualità ne ha sofferto. Il numero di americani che lavora nelle industrie manifatturiere, edilizie e governative - i tre settori che hanno tradizionalmente pagato i migliori salari - è calata dal 2008 e la crescita nell’occupazione è stata guidata dai servizi - dagli hotel, ai ristoranti, agli ospedali - che pagano molto meno.

E’ un cambio radicale: da un’economia industriale (e governativa) a un’economia dei servizi che cresce ma non retribuisce come nel passato chi vi partecipa - un altro motivo per cui molti americani non vogliono più far parte della forza lavoro.

Non è un caso che i salari medi, a maggio, siano saliti solo del 2,1%, praticamente in linea con il tasso d’inflazione.

La buona notizia, in tutto ciò, è che l’economia Usa continua a crescere senza creare pressioni inflazionistiche grazie, in gran parte, agli esigui aumenti nei salari. Il consenso degli economisti di Wall Street ieri era che la Federal Reserve continuerà a mantenere i tassi d’interesse bassi proprio perché il mercato del lavoro non è ancora in buona salute.

L’altro aspetto positivo è che le aziende sono in una posizione ideale: hanno soldi risparmiati durante gli anni di crescita-zero e la possibilità di assumere senza il pericolo di aumentare i salari. Nel tira e molla storico tra capitale e forza-lavoro, gli ultimi sei anni negli Usa hanno favorito il capitale - un risultato che dovrebbe alimentare la crescita economica nei prossimi anni.

Il problema, però, è a lungo termine. Ormai conosciamo l’America che è uscita dalla recessione, ma che America uscirà da questo periodo di crescita lenta e diversa dal solito?

Ogni supereroe ha la sua nemesi. Per il benessere dell’economia mondiale, bisogna sperare che la crisi del 2008 non si riveli la kriptonite degli Usa.

Francesco Guerrera


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