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lunedì 7 luglio 2014

"Senza lavoro per i giovani l'Italia è finita"

LA STAMPA

Economia

“Senza lavoro per i giovani l’Italia è finita”

Napolitano torna sull’emergenza occupazione. Baretta: è uno dei punti centrali dell’impegno del governo

«Se non trovano lavoro i giovani, l’Italia è finita». È la risposta che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in visita a Monfalcone, in Friuli Venezia Giulia, per le cerimonie dedicate all’anniversario della prima guerra mondiale, ha dato ad un uomo che gli chiedeva se c’era ancora speranza per loro, per i giovani alla ricerca di un lavoro.

Che altro poteva chiedere un ragazzo in quest’Italia dove, in base agli ultimi dati disponibili, quelli di maggio, la disoccupazione giovanile è al 43%, in leggera frenata rispetto al mese precedente (-0,3 punti) ma comunque oltre ogni livello di guardia. Sono 700 mila i ragazzi tra i 15 e i 24 anni che inviano curriculum e fanno colloqui in attesa di un posto che non c’è, 64 mila in più rispetto a un anno fa.

«E’ uno dei punti centrali dell’impegno del governo e dell’azione che stiamo portando in Europa - assicura Pierpaolo Baretta, sottosegretario al Tesoro - perché il quadro della disoccupazione è drammatico in Italia ma anche in Europa e richiede un impegno straordinario. Per questo motivo ci stiamo battendo per una maggiore flessibilità e abbiamo come obiettivo la ripresa economica sapendo che potrà tradursi in lavoro per i giovani. Stiamo lavorando anche per accelerare la riforma del mercato del lavoro e per mettere, in generale, l’occupazione al centro delle politiche di crescita».

Cesare Damiano, presidente della commissione Lavoro della Camera, è contrario a riforme o stravolgimenti. «Non servono nuove regole sul mercato del lavoro ma una spinta alla crescita». La soluzione quindi passa per una maggiore flessibilità nell’Unione Europea e per un aumento del potere d’acquisto delle famiglie. «E’ quello che abbiamo iniziato a fare con gli 80 euro che ora andrebbero estesi», spiega. Secondo Damiano, però, per assicurare un lavoro ai giovani bisogna intervenire sulla riforma Fornero: «Com’è possibile che le nuove generazioni entrino se le vecchie continuano a lavorare fino a 67 anni? È necessario introdurre dei meccanismi di gradualità per rivedere il sistema pensionistico».

Maurizio Sacconi (Ncd), presidente della commissione lavoro del Senato, preferisce non commentare, rinvia al lavoro che la maggioranza sta compiendo sui provvedimenti in materia di lavoro e spera di poter ottenere risultati concreti già da domani. Sacconi preferisce non commentare perché alle parole vorrebbe rispondere con i fatti. Lo stesso tipo di reazione che le parole del presidente della Repubblica suscitano in Raffaele Bonanni, leader della Cisl. «Da anni si parla della disoccupazione giovanile ma non accade nulla, si fa solo un’insopportabile demagogia». Bonanni sostiene che è inutile perdere tempo a discutere di incentivi se a mancare è il lavoro. «La classe dirigente deve decidersi a far calare il costo dell’energia, dei trasporti, delle tasse, dell’amministrazione della giustizia. Solo quando l’Italia diventerà competitiva e riuscirà di nuovo ad attirare gli investimenti stranieri si creerà nuovo lavoro per i giovani». Con i giovani non si scherza, avverte Giuseppe Failla, portavoce del Forum Nazionale dei Giovani. «Le conseguenze della disoccupazione giovanile saranno drammatiche per l’Italia. Significa non costruire l’Italia del futuro, e minare anche le basi della democrazia».

FLAVIA AMABILE


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venerdì 6 settembre 2013

Sorgi (miglior interprete dei pensieri di Napolitano): "L'unica strada possibile".

LA STAMPAweb

Cultura

L’unica strada possibile

Un leader normale - ma non Berlusconi - valuterebbe il messaggio uscito ieri sera dal Quirinale per quel che è: il massimo di legittimazione politica che il Presidente della Repubblica poteva offrire a un capopartito, condannato per un reato pesante come l’evasione fiscale, che da oltre un mese invoca per sé l’agibilità, cioè il diritto di continuare a svolgere il suo compito nel rispetto dei nove milioni di elettori che gliel’hanno affidato. Napolitano s’è infatti rivolto al Cavaliere appellandosi al suo senso di responsabilità, ricordandogli quante volte, fin dal giorno della dura sentenza della Cassazione nei suoi confronti, abbia ribadito che non ci sarebbero state conseguenze per il governo e riconoscendogli in pratica il ruolo dell’unico che a questo punto possa salvarlo.

Si può solo immaginare cosa dev’essere costato al Presidente, che dopo la nota di Ferragosto si era ripromesso di non tornare più sull’argomento, licenziare questo messaggio.

Parole che pesano ancor di più nel giorno in cui vengono rese note le motivazioni di un’altra condanna, quella dei giudici di appello contro Marcello Dell’Utri per i suoi rapporti con la mafia, da cui vien fuori che Berlusconi, ormai quasi quarant’anni fa, si incontrò con uno dei boss di Cosa Nostra più potenti di Palermo. Ma tant’è: al momento la caduta del governo sarebbe talmente rovinosa per l’Italia - interrompendo il percorso virtuoso che ha portato il Paese a riguadagnare la fiducia perduta sul piano internazionale e riprecipitandolo nel vortice della crisi economica dalla quale sta cominciando ad uscire - che il Capo dello Stato, come ha detto nella seconda parte del suo messaggio, non considera possibile pagare questo prezzo.

Ma per far sì che l’auspicio del Presidente si avveri, è indispensabile che anche Berlusconi prenda atto del frangente drammatico in cui il Paese si trova e si risolva a fare un sacrificio. Il leader normale che il Cavaliere non è soppeserebbe la scelta di buttare giù Letta, senza lasciarsi andare al risentimento verso i suoi alleati-avversari del Pd (ma davvero poteva pensare che, davanti all’occasione di far rotolare la sua testa, avrebbero passato la mano?). Per misurare, invece, l’ipotesi di una rottura, se non dal punto di vista dell’interesse generale, sempre predicato, mai realmente considerato, almeno sotto il profilo delle convenienze e dei costi-ricavi per la sua parte. Anche se non è detto che, caduto il Letta-uno, subito nascerebbe il Letta-bis, con l’appoggio di una maggioranza mezza di sinistra, con Vendola, e mezza di transfughi del Movimento 5 Stelle e del Pdl, è sicuro al cento per cento che Napolitano non scioglierebbe le Camere, nè darebbe il via a nuove elezioni anticipate: da celebrarsi, per altro, con il Porcellum che la Corte costituzionale si prepara a cancellare entro dicembre. Così, sia che si arrivi al bis, sia che il Capo dello Stato con la sua fantasia trovi un’altra soluzione, il risultato, per Berlusconi, che attualmente ha quasi la metà dei ministri, sarebbe di ritrovarsi all’opposizione di un governo, o di un governicchio, che avrebbe al primo punto del programma la definizione di una nuova legge elettorale, da approvarsi con o senza il consenso del centrodestra, per tornare al voto la prossima primavera. Bel capolavoro, non c’è che dire.

Per quanto duro sia da accettare, Berlusconi deve rendersi conto che non c’è una soluzione che passi per la cancellazione o il rinvio sine-die del suo conto con la giustizia. Anche se si ritiene vittima di un’ingiustizia e lamenta da tempo l’accanimento di una parte della magistratura nei suoi confronti, quel conto, il Cavaliere, deve pagarlo. Tutto o in parte, dato che è possibile - Napolitano a Ferragosto non lo ha escluso - che a un certo punto intervenga in suo aiuto la grazia o un altro provvedimento di clemenza.

Non è affatto facile, va detto, prendere una decisione del genere. Ancor di più per un uomo come Berlusconi, che da vent’anni domina la scena politica italiana e gode ancora di un larghissimo seguito popolare. Ma la crisi di governo non cambia in nulla il dramma di questa scelta. Semmai lo aggrava.

Marcello Sorgi


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sabato 31 agosto 2013

Meno politica e più cultura (finalmente!)...

LA STAMPA

Italia

I senatori a vita dal 1949 a oggi

Torna il modello Einaudi Meno politica e più cultura

Ogni presidente ha “interpretato” l’istituto, celebri i no di Iotti e Montanelli

Lo si è capito subito, un minuto dopo la nomina: non avranno vita facile i quattro senatori a vita scelti da Napolitano, con un criterio che lo stesso Presidente ha voluto definire «einaudiano».

Scienza e cultura - piuttosto che la politica - come ambiti di provenienza, grande prestigio personale e internazionale, proprio come recita l’articolo 59 della Costituzione, che elenca come requisiti l’aver «illustrato la patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario».

E da questo punto di vista, checché ne dicano i parlamentari del centrodestra che ieri hanno criticato l’iniziativa del Presidente - dall’immancabile Daniela Santanchè, che avrebbe, pensa un po’, voluto Berlusconi, a Pietro Liuzzi, che sponsorizzava Riccardo Muti e Giorgio Albertazzi, al leghista Roberto Calderoli, sospettoso che il centrosinistra, con i nuovi arrivati, conquisti quattro voti decisivi al Senato - Napolitano non poteva scegliere meglio. Basta scorrere i curriculum dei nuovi senatori, conosciuti e apprezzati in tutto il mondo: Claudio Abbado per aver diretto a lungo le più importanti orchestre di Parigi, Londra, Vienna, Berlino; Carlo Rubbia per la sua lunga missione a Ginevra, le 28 lauree honoris causa che sottolineano l’impegno per la ricerca nella fisica delle particelle elementari e un asteroide perso nello spazio e intitolato a suo nome; Renzo Piano per le innumerevoli «tracce» architettoniche e artistiche seminate nelle grandi metropoli, da Tokyo a Sidney, a Parigi, Berlino, Dallas, e la grande passione per il mare che lo ha spinto a disegnare per sé una delle barche più belle di tutti i tempi; Elena Cattaneo, la più giovane, per la lunga e testarda esperienza di ricercatrice in America e il suo parlar chiaro contro ogni limitazione ideologica o integralista della ricerca e dell’uso delle cellule staminali.

Ma il punto è che da tempo - e particolarmente negli ultimi tempi - la questione dei senatori a vita ha assunto una dimensione controversa, e come tante altre questioni più futili su cui si esercita quotidianamente la politica italiana, è diventata oggetto di scontro e di polemiche. Lontana, lontanissima è l’epoca in cui un altro grande maestro di musica come Arturo Toscanini, o un poeta come Trilussa, o un archeologo come Umberto Zanotti Bianco - i primi senatori a vita della Repubblica, scelti da Einaudi, che nel suo settennato, per via della morte imprevista di tre dei suoi cinque, ne nominò otto - potevano frequentare il Senato tranquillamente, come e quando volevano, rispettati da tutti, senza neppure dover immaginare di incorrere nei fischi del centrodestra che avrebbero accompagnato Rita Levi Montalcini tra il 2006 e il 2008, quando a fatica, già sofferente per gli acciacchi della vecchiaia, si recava a votare per il governo Prodi.

La prima questione che si pose fu quella del numero: la Costituzione doveva intendersi nel senso che il Presidente della Repubblica, come organo istituzionale, oppure ogni Presidente, poteva nominare cinque senatori? E qui, anche agli albori della Prima Repubblica, si creò subito qualche attrito, più o meno esplicito, tra gli inquilini del Quirinale. Agli otto senatori di Einaudi, per dire, ne seguì uno solo di Gronchi. E quando anche Cossiga volle scegliere i suoi cinque, incurante delle perplessità degli uffici del Senato, in quel momento non proprio sguarnito di senatori di nomina, Scalfaro, che fu il suo successore, non ne nominò nessuno.

Bisogna considerare che le pressioni a cui i Presidenti erano sottoposti, man mano che la clessidra dei loro settennati scorreva, si facevano più forti. Ad Einaudi fu consentito di scegliere in piena libertà tra intellettuali, scienziati, letterati, artisti e scultori. Ma quando, ai tempi di Segni, il laticlavio cominciò a cadere sulle spalle di politici, certo anziani e togati, ma pur sempre politici, si affacciò la seconda questione: il Presidente è libero di scegliere chi vuole, senza preoccuparsi degli equilibri interni del Senato, o deve articolare la sua scelta senza turbarli? Saragat se la cavò affiancando al presidente della Fiat Vittorio Valletta e al poeta Eugenio Montale un democristiano di lungo corso come Giovanni Leone (che quando venne il suo turno scelse Fanfani) e lo storico leader socialista Pietro Nenni. Pertini chiamò Leo Valiani e Camilla Ravera, in nome della comune militanza nella Resistenza, un grande regista e autore di teatro, Eduardo De Filippo, e due accademici come Carlo Bo e Norberto Bobbio. Il quale, dopo un decennio di serena frequentazione di Palazzo Madama, divenne decisivo nella votazione all’ultimo sangue tra Giovanni Spadolini e Carlo Scognamiglio per la presidenza del Senato nel 1994, anno primo dell’era berlusconiana. In quel periodo Bobbio, dopo l’esperienza della candidatura forzata (e mancata) al Quirinale di due anni prima, frequentava meno. Raggiunto da una telefonata di Gianni Agnelli (nel frattempo, anche lui, divenuto senatore a vita per nomina di Cossiga), che tifava per Spadolini, in nome di una vecchia amicizia, il professore fu portato a Roma in fretta da un aereo della Fiat. Ma anche il suo voto non bastò a impedire l’elezione di Scognamiglio, che vinse per un voto.

Di tutte le tornate, certo la più difficile fu quella di Cossiga. Non solo per il problema del numero, ma anche perché l’allora più giovane presidente dovette scontare, per la prima volta, dei rifiuti. A dire di no fu Nilde Iotti, che preferì restare alla Presidenza della Camera, e più clamorosamente Indro Montanelli, che rinunciò con una spiritosissima lettera in cui accusava Cossiga, in pratica, di volergli legare le mani. Fino a quel momento non era mai successo che qualcuno si opponesse pubblicamente a un incarico così prestigioso. Il solo Toscanini, in passato, aveva preferito lasciare, a un certo punto, per ragioni di salute.

Ma fu l’unico precedente, come lo stesso Cossiga potè sperimentare qualche anni dopo. Nel 2002, e poi nel 2006, il Picconatore tentò inutilmente di lasciare il Senato. La prima volta perché, divenuto oggetto di un’inchiesta giudiziaria di Henry John Woodcock, allora sostituto procuratore a Potenza, sosteneva che Ciampi, che non poteva farlo, non lo aveva difeso. La seconda ce l’aveva con Andreotti, suo vicino di stanza a Palazzo Giustiniani, che con una delle sue battute lo aveva accusato di lavorare poco e «non fare neppure l’orario dei barbieri». Stavolta toccò a Franco Marini, appena eletto presidente del Senato, convincerlo a restare in carica. Lo fece in tutti i modi, pressandolo, supplicandolo, richiamandolo all’antica e comune militanza. Cossiga alla fine accettò, ma a malincuore, dopo aver chiesto un dotto approfondimento giuridico all’ufficio studi di Palazzo Madama: «Mi è stato risposto che l’unico modo di smettere di fare il senatore a vita è togliersi la vita», fu il suo velenoso epitaffio finale.

Marcello Sorgi


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mercoledì 14 agosto 2013

Le reazioni alla. nota di Napolitano...

LA STAMPAweb

Italia

“Sentenza da rispettare, grazia da valutare”

La linea di Napolitano: una crisi di governo sarebbe fatale. Nessuna domanda di clemenza è arrivata

Sono quasi le otto di sera quando l’attesa nota del Quirinale sulla questione Berlusconi viene diffusa. Dopo una giornata ansiosa, le righe vergate dal presidente della Repubblica dopo essere stato chiamato in causa «in modo spesso pressante e animoso», vengono interpretate diversamente dalle forze politiche. «Dichiarazione opportuna» e «rispettosa di tutti i ruoli», interviene tempestivamente il segretario del Pd Guglielmo Epifani. «Dichiarazione un po’ pilatesca che lascia aperto un interrogativo» sulla eventualità della grazia, boccia altrettanto tempestivamente l’ex capogruppo dei Cinque stelle al Senato Vito Crimi. Quello stesso interrogativo aperto è quello che fa sperare «spazi significativi per il futuro» e intravedere una «importante apertura» nel Pdl.

Nella nota, il presidente Napolitano conferma l’importanza del lavoro dell’esecutivo Letta, perché una crisi di governo sarebbe «fatale», definisce quindi «ipotesi arbitrarie e impraticabili» quelle di scioglimento delle Camere, e ricorda come «di qualsiasi sentenza definitiva, e del conseguente obbligo di applicarla, non può che prendersi atto». E affronta la questione della famosa agibilità politica di Berlusconi giudicando che toccherà al Cavaliere e al Pdl decidere sulla sua funzione di guida «nei modi che risulteranno legittimamente possibili», mentre sulla tanto evocata grazia «nessuna domanda mi è stata indirizzata cui dovessi dare risposta».

Un tema, quello della grazia, che ha agitato la giornata politica. «Non si può pretendere dal Colle un segnale o un “salvacondotto” che minano l’uguaglianza di tutti i cittadini. Ne andrebbero di mezzo la credibilità e, ancor più, il prestigio di un presidente amato e stimato da tutti», scrive in un editoriale on line il direttore di «Famiglia cristiana» Antonio Sciortino. Più duri i toni del Movimento Cinque stelle, che arriva, con il senatore Michele Giarrusso, a ventilare la richiesta d’impeachment contro il presidente Napolitano nel caso in cui concedesse la grazia a Berlusconi, «dovrebbe essere messo in stato d’accusa per attentato alla Costituzione: non è una mia posizione personale, anche Grillo è d’accordo e ci stiamo già preparando».

Così, dopo la diffusione delle dichiarazioni presidenziali, mentre nel Pd si mette subito l’accento sulla loro opportunità «viste le pressioni che si sono create anche indebitamente», come dice il leader Epifani, mentre da quelle parti si definisce Napolitano «impeccabile» (lo dice Pittella), il «custode della Costituzione» (il lettiano Francesco Boccia), con la sola eccezione del senatore Corrardino Mineo che sintetizza la nota con un «vorrei ma non posso», nel M5S si legge con allarme il richiamo del capo dello Stato al dovere di «un esame obbiettivo e rigoroso» dinanzi a un’eventuale richiesta di grazia: è un coro di critiche a Napolitano, con la deputata Sarti che annuncia, se verrà esaminata una domanda di clemenza, «saremo tutti in piazza».

Ma è ovviamente nel Pdl che le parole di Napolitano erano attese con più impazienza. E vengono accolte cercando di leggerne i segnali che aprono una «prospettiva»: pur “nella sua cautela”, come nota l’ex ministro Romani, «sembra non lasciare dubbi sulla eccezionalità del caso giudiziario». Nonostante la Gelmini noti che «resta il problema dell’agibilità politica di Berlusconi», secondo la sottosegretaria Michaela Biancofiore nelle parole del presidente si coglie «con evidenza» una «disponibilità di massima» sulla ipotesi di grazia. Se, come ha sottolineato il capo dello Stato, gli verrà chiesta.

francesca schianchi


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sabato 10 agosto 2013

Per il già Cavaliere suona l'ora dei Falchi...

LA STAMPA

Italia

La vendetta del Cavaliere per la grazia che sfuma

Prima che sia valutata, dovrebbe accettare la sentenza e lasciare la politica

L’ ultimatum di Berlusconi sull’Imu è un segnale di disperazione politica. È il riflesso condizionato di un uomo con la giustizia alle calcagna, che in queste ore sente scivolargli tra le dita l’ultimo salvagente cui si illudeva di aggrapparsi: la grazia presidenziale.

Chi sta vicino al Cavaliere racconta di contatti molto informali con il Colle, che non avrebbero dato i risultati attesi dalle parti di Arcore. Di qui la reazione veemente sull’Imu e la tentazione sempre più forte di far saltare il banco, muoia Sansone con tutti i Filistei, tipica di quanti non hanno più nulla da perdere, neppure la libertà personale.

Giovedì pomeriggio, tra le ore 16 e le ore 19, ben tre ambasciatori accreditati sul Colle hanno riferito a Berlusconi che l’atto di clemenza nei suoi confronti, se mai verrà concesso, non arriverà prima del 15 ottobre. E sarà comunque subordinato a condizioni rigorosissime tali da configurare nel loro insieme un’uscita di scena, l’addio definitivo di Silvio al grande palcoscenico della politica. Primo, niente più polemiche contro la magistratura. Secondo, Berlusconi accetti la sentenza e i suoi corollari, vale a dire l’espulsione dal Parlamento, l’eventuale detenzione domiciliare oppure un impiego ai servizi sociali. Terzo, l’ex premier formuli un’espressa domanda di grazia, senza pretendere che il Capo dello Stato gliela conceda «motu proprio» sull’onda di manifestazioni e proteste orchestrate dal Pdl.

Solo ove tutto questo si realizzasse (così hanno riferito gli ambasciatori), allora forse maturerebbero le condizioni per un provvedimento di grazia, tutto da studiare nelle sue modalità. Più di così sarebbe impossibile chiedere al Presidente, che mai comunque si presterebbe a concedere «salvacondotti». Sul Colle nulla suona più offensivo di certi moniti lanciati dal Pd, secondo cui «la legge dev’essere uguale per tutti»: come se lui, Napolitano, avesse bisogno di farselo ricordare dal suo partito d’origine... Proprio ieri mattina l’intero gruppo dirigente democratico è salito al Quirinale, e tutto lascia immaginare un franco chiarimento in proposito.

Dire che Berlusconi ci sia rimasto male, sarebbe eufemistico. Il clima dalle sue parti è di autentica tregenda. Attendere fino al 15 ottobre viene considerato un suicidio, nella premessa che già prima di quella data altre procure (ad esempio Napoli, dove Berlusconi è sotto inchiesta per corruzione di senatori) potrebbero profittare della decadenza da parlamentare per stringergli le manette ai polsi. Ma soprattutto, viene respinta come irricevibile la condizione di fondo posta dal Quirinale per l’atto di clemenza, vale a dire un addio alle armi, bandiera bianca e ritiro di fatto dalla politica. Il Cavaliere pretende invece di tirare avanti come se non lo avessero condannato, e la condanna fosse anzi una medaglia al valore. Sta dando la caccia (senza successo) alle bobine originali dell’intervista che il giudice Esposito ha rilasciato al «Mattino», nella speranza di trovarvi affermazioni talmente spropositate da invalidare la sentenza. Nel frattempo, sull’Imu, Berlusconi fa assaggiare un antipasto del caos in cui verrebbe trascinata l’Italia se lui desse ordine, come nel film del «Gladiatore», di scatenare l’inferno. Soltanto un intervento in tackle dell’avvocato Coppi ha messo in forse una tournée di comizi berlusconiani che la Santanché aveva già messo in cantiere per fine agosto a Capri, a Forte dei Marmi, a Cortina. Verdini sta facendo i conti sui numeri necessari, in Senato, per tentare di rendere ineluttabili nuove elezioni, e pare siano stati presi contatti perfino con i grillini. È più che mai l’ora dei «falchi». I quali, se non altro, mostrano cuore e sentimento, si sbattono per Berlusconi nell’ora più difficile, gli si stringono intorno profittando anche dell’assenza del segretario Alfano che non aveva previsto questo dramma quando aveva fissato le vacanze, ed è partito giovedì lasciando campo libero ai signori della guerra.

ugo magri


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domenica 4 agosto 2013

Calabresi: L 'abbaglio dello scontro totale

LA STAMPA

Prima Pagina

L’abbaglio dello scontro totale

Dove sono gli italiani pronti a una guerra civile per contrastare la sentenza della Cassazione? In giro non se ne vedono. E chi predica lo scontro totale ha perso ogni sintonia con gli umori e i bisogni dell’Italia di oggi.

In giro si incontrano tantissimi cittadini che la guerra vorrebbero invece farla alla disoccupazione e a una crisi che ha ridotto i giorni di vacanza e i sacchetti della spesa, aumentando invece paure e incertezze. Si vedono italiani sfiniti da una politica che è tornata a girare intorno a un uomo solo, alle sue vicende giudiziarie, alla sua rabbia.

Chi chiede rispetto per otto milioni di elettori si ricordi che il rispetto lo si deve anche agli altri 50 milioni di italiani che vivono questo Paese. E che tutti, a partire proprio dagli elettori di destra e dall’opinione pubblica moderata, non meritano tutto questo. Meritano che ci si occupi dei loro bisogni, dei negozi che chiudono, delle aziende che soffocano, delle tasse troppo alte e non che ci si infili in una nuova guerra che darà il colpo di grazia alla nostra economia.

Il percorso è uno solo: le sentenze vanno rispettate, così le forme della democrazia, e non si può immaginare di ricattare contemporaneamente il Presidente della Repubblica, il governo e gli italiani.

Resto convinto che le urne sarebbero una sconfitta tragica e ci precipiterebbero di nuovo nel caos: la stabilità oggi è un valore primario, prima di tutto per i cittadini comuni, ma per averla non si possono accettare la paralisi e lo stravolgimento delle regole. E’ tempo di normalità e non di proclami, di pazienza, di menti lucide e serene che guardino lontano. Questo si aspetta un Paese col fiato sospeso.

Mario Calabresi

lunedì 20 maggio 2013

martedì 23 aprile 2013

Masoch-Citorio, il Buongiorno di Gramellini

Da La Stampa


Prima Pagina

Masoch-citorio



Il discorso di Masoch-citorio, in cui il Presidente ha maltrattato i politici fra gli applausi scroscianti dei medesimi, ha provocato un immediato effetto di emulazione nelle altre categorie di furbacchioni del Paese.

Pochi minuti dopo lo storico cazziatone presidenziale, veniva segnalato un assembramento di automobilisti in via Veneto: stavano portando in trionfo il vigile che li aveva multati per parcheggio in quadrupla fila (nella mischia qualcuno cercava di sfilargli i verbali dalle tasche). A riprova che da noi il senso di colpa prevale sempre su quello del ridicolo, nei dintorni di piazza del Popolo alcuni evasori fiscali con yacht a carico facevano la ola a una pattuglia della Guardia di Finanza, costringendola a passare sotto una cascata di scontrini, ovviamente falsi. Molto toccante la scena all’uscita della metropolitana di via Barberini, dove una madre esasperata ha requisito il computerino ai figli, che hanno accolto la decisione con urla di giubilo, tuffandosi nella lettura dei libri di scuola. (Sotto la copertina c’erano le istruzioni di un videogioco). In piazza di Spagna un marito fedifrago ascoltava a testa bassa la gelida requisitoria della moglie, interrompendone i passaggi più significativi con vivissimi applausi, mentre tramite sms spostava di mezz’ora l’appuntamento con l’amante. Nulla è più liberatorio dell’essere scoperti, nulla più dolce della possibilità di sdoppiarsi fra vittima e carnefice smanioso di espiazione. Noi Dostoevskij non abbiamo bisogno di leggerlo: lo abbiamo nelle vene. Naturalmente un Dostoevskij in versione light. Un peccatore felice di pentirsi perché non vede l’ora di ricominciare.

Massimo Gramellini

domenica 21 aprile 2013

La cambiale in bianco dei partiti...

da La Stampa


I partiti costretti a firmare
una cambiale in bianco

Col fiato sospeso fino al sì di Napolitano, ora dovranno assecondarlo

Non chiamiamolo «colpo di Stato», alla maniera di Grillo. Eppure qualcosa di eccezionale ci vede testimoni: pur di trascinarsi fuori dai guai, gli eredi della partitocrazia (Pd, Pdl, centristi) hanno concesso carta bianca a Napolitano. Il 20 aprile 2013 passerà agli annali come l’inizio della fine, come la crisi terminale della Seconda Repubblica che rende ineluttabili riforme del sistema. Ma soprattutto, verrà ricordato per una cessione di sovranità politica che ha preso drammaticamente il via la sera di venerdì, nel caos seguito al capitombolo di Prodi; che ieri mattina è culminata in una processione al Quirinale di Bersani, di Berlusconi, di Monti e di Maroni; che si è conclusa poco prima delle 15 con il sì di Napolitano alla sua seconda incoronazione...
I partiti hanno firmato una cambiale, ora dovranno onorarla. Non c’è bisogno di immaginare chissà quali condizioni imposte da Re Giorgio. Una nota del Quirinale e un’altra da Largo del Nazareno hanno subito smentito patti occulti. Tuttavia la strada sembra spianata per un esecutivo sorretto dalle stesse forze che hanno supplicato in ginocchio il Capo dello Stato. Non ha torto Vendola quando grida disperato che «si va verso un governissimo»: magari avrà un’altra etichetta, si chiamerà governo del Presidente, adotterà il programma dei «saggi», potrà essere guidato da un premier alla Amato o da un politico come Enrico Letta, per citare due nomi molto gettonati, ma la sostanza poco cambia. Rispetto ai tentativi già falliti nelle scorse settimane, Napolitano ora ha frecce più acuminate nel suo arco. Come minimo, Pd e Pdl gli debbono gratitudine, sentimento che in politica evapora sempre molto in fretta e dunque spiega come mai il filo delle consultazioni verrà ripreso immediatamente, forse già martedì. C’è da battere il ferro finché è caldo. Inoltre l’uomo del Colle recupera il potere di sciogliere le Camere, di cui ovviamente non intende avvalersi, ma sui partiti ridotti come stracci (soprattutto il Pd) un possibile ritorno alle urne è argomento persuasivo non da poco. Infine, dove stanno le alternative?
Se mai fossero esistite, nella notte tra venerdì e sabato non ci sarebbe stato tutto quel frenetico rincorrersi di riunioni e telefonate, di contatti informali tra Silvio e Angelino da una parte, Pierluigi e Enrico dall’altra, con Napolitano inizialmente netto nel tirarsi indietro, e ancora alle 10 di ieri mattina parecchio restio, molto sul negativo, al punto che ambienti quirinalizi liquidavano come chiacchiere senza fondamento i «boatos» provenienti da Montecitorio. La svolta è maturata con la visita di Bersani sul Colle, senza dubbio l’unica vera mossa azzeccata dal segretario Pd, che è riuscito ad aprire una breccia nel «muro» presidenziale proprio mentre il solito Vendola rispondeva secco «non commento una rielezione che non esiste», e lo stesso Monti insisteva per eleggere la Cancellieri («Siamo fermi alla indisponibilità di Napolitano, bisogna rispettarlo), salvo spendersi più tardi anche lui nell’opera di persuasione.
Alla Camera si consumava la quinta inutile votazione, davanti al Palazzo di Montecitorio folle grilline ritmavano «Ro-do-tà-Ro-do-tà», e nello studio alla Vetrata Bersani si dava il cambio con Berlusconi. Chiaro il motivo per cui i democratici, che hanno visto la morte in faccia, si aggrappano alla ciambella di Napolitano; più misteriosa risulta invece la scelta del Cavaliere: difficile immaginarlo d’improvviso così cauto, serio e responsabile, dottor Jekyll e mr Hyde. Nell’entourage raccontano che il vuoto d’aria in cui è precipitato il Pd terrorizza pure lui, in quanto lo priva di qualunque «interlocuzione», Silvio non sa più con chi negoziare per l’Italia e per se stesso. Casomai Napolitano fosse stato irremovibile, gli avrebbe chiesto comunque una mano a scovare il nome giusto...
È arrivato al punto, il Pdl, da vietare per bocca di Alfano attacchi a Bersani in difficoltà, un’attenzione che non ti aspetti. Secondo il professor Becchi, spesso accostato a Grillo, è «la Casta che si ricompatta», e «pur di impedire il cambiamento è disposta a tutto». Ma forse c’è dell’altro, di più e di meglio che una difesa ottusa dell’esistente. Rinunciando in extremis alla sua «marcia su Roma», che doveva adunare «milioni di persone» nella protesta davanti al parlamento, lo stesso Grillo s’è reso conto che le spallate sono inutili: la transizione verso l’ignoto è già in atto, va solo accompagnata.
ugo magri

sabato 13 aprile 2013

E così la Lombardi si è fatta fregare il portafoglio...

.. con tutte le ricevute (!)... La "cittadina" perfetta che prendeva, spocchiosissima, per il sedere Napisan, si è fatta borseggiare o ha dimenticato la borsetta al bar...  Ci sa tanto che Napisan il portafoglio non se l' è mai fatto fregare e neppure l'ha mai perso...

Da Il Corriere della Sera:

La Lombardi: «Mi hanno rubato il portafoglio con dentro tutte le ricevute delle spese»
Non potranno essere messe online. La capogruppo alla Camera dell'M5s chiede consiglio su Facebook

Un inconveniente non da poco. Soprattutto per chi ha scelto la strada della trasparenza in politica. Roberta Lombardi, capogruppo del Movimento Cinque Stelle alla Camera, denuncia su Facebook di aver subito il furto del portafoglio, al cui interno vi erano tutte le ricevute delle spese sostenute da quando è sbarcata a Montecitorio. Che quindi, a meno di un ritrovamento, non potranno essere più rese pubbliche.
DENUNCIA - Scrive la Lombardi su Facebook: «Ho subito il furto del portafoglio e la perdita mi hanno rubato il portafoglio dalla borsa. Oltre l'immane seccatura di rifare carte, patente, codice fiscale e il piccolo dispiacere per l'oggetto in sè, ho perso tutte le ricevute delle spese sostenute finora........ Poca roba, circa 250 in un mese. Poiché è mia intenzione trattenere dalle voci di rimborso che compongono il mio stipendio solo quelle effettivamente sostenute e documentate e restituire il resto, cosa faccio? Aspetto vostri consigli».
Gli amici e i militanti la «assolvono» per ora. Lo faranno tutti?

Redazione Online
13 aprile 2013 | 15:06

lunedì 1 aprile 2013

Uno scenario, quello di Napolitano, che va bene a tutti...


di Stefano Feltri
per Il Fatto Quotidiano



Sorpresa: il nuovo governo non ci sarà. E quello di Mario Monti, ormai un esecutivo-zombie, un po' morto ma non del tutto, durerà almeno fino a maggio. Ma più probabilmente fino a luglio, o addirittura a ottobre, chissà.

Il 15 aprile si comincia a scegliere il nuovo capo dello Stato. Che dovrebbe insediarsi dal 15 maggio. A quel punto il mister (o Mrs) X che sarà al Quirinale, riceverà Monti. Il premier rimetterà il mandato - di nuovo - e il capo dello Stato dovrà decidere che fare. Potrà nominare un "governo del Presidente" che abbia come programma quello minimo elaborato - si spera - dai saggi che Giorgio Napolitano ha indicato oggi. Oppure dovrà rassegnarsi a sciogliere le Camere. E i tecnici di Monti rimarranno nel frattempo ancora in carica per gli affari correnti, attraversando così tre legislature.

Sembra un disastro? In realtà questo scenario va bene a tutti. Vediamo perché.

1- Silvio Berlusconi. Si presenta come uomo di Stato, è lui il vero "responsabile" che è pronto a far nascere ogni governo, era disposto a votare perfino Bersani. Nel caos attuale, può presentarsi come l'usato sicuro, deludente, certo, ma sempre meglio dei pasticcioni apparsi in seguito alla sua dipartita (tanto gli italiani hanno memoria breve, non si ricordano già più il Bunga Bunga e ildefault imminente).



In questa fase di negoziato permanente, il Cavaliere sa di essere un interlocutore per tutti, uno dei pochi punti fermi. E quindi, spera, le Procure non oseranno chiedere il suo arresto, i giudici saranno più miti, il Pd abbandonerà ogni intransigenza e archivierà sia il proposito di renderlo ineleggibile che quello di fare una vera legge sul conflitto di interessi.


2- Beppe Grillo. La sua è stata una profezia che si è auto-avverata: alla fine ci sarà la grande coalizione, o almeno questo è il tentativo, tra Pd e Pdl. Non per colpa della malasorte o per un disegno preciso del Pd, quanto per esclusiva responsabilità di Grillo. Il leader del Movimento a 5 stelle ha boicottato sia l'ipotesi di un accordo politico con i democratici perché, legittimamente, non poteva accordarsi con un avversario politico diretto come Pier Luigi Bersani. Ma ha affossato anche l'ipotesi del "governo dei migliori", quello che sarebbe stato guidato da un Rodotà o Zagrebelsky e che avrebbe realizzato una buona parte del programma a Cinque Stelle.


Ora Grillo è nella condizione che sperava: opposizione pura, anti-sistema, contro tutti, senza sfumature. Da lì spera di aumentare ancora i consensi, sempre che le gaffe e l'inadeguatezza manifestata finora dai suoi parlamentari, a cominciare dai capigruppo, non portino a una rapida disillusione degli elettori. Adesso il Movimento è sicuro che praticamente tutto il suo programma rimarrà su carta e che non si verificheranno più situazioni tipo quella che ha spinto alcuni deputati grillini a votare Pietro Grasso alla presidenza della Camera. Una vittoria tattica, al prezzo di una sconfitta strategica.

3- Mario Monti. Il premier in carica non ha più niente da perdere. Non si ricandiderà mai, il suo partito è nato morto, dopo un risultato elettorale pessimo. Al momento è fuori dalla corsa per il Quirinale. Quindi a lui va benissimo rimanere in carica e gestire il complesso avvio del "semestre europeo", cioè definire di raccordo con Bruxelles il bilancio dell'Italia per il 2014. Rimane in carica, ri-legittimato dal Quirinale dopo che il ministro degli Esteri Giulio Terzi, probabilmente per ambizioni personali, si è dimesso per il caso marò creando un danno di immagine notevole.

Il Professore è anche ministro degli Esteri ad interim, cosa che gli assicura il massimo della visibilità internazionale in questa fase. Può recuperare il suo ruolo di garante della politica italiana davanti a mercati e partner internazionali. Potrebbe guadagnarsi una riconferma nel prossimo governo, magari guidare lui un eventuale esecutivo del presidente (scelto dal prossimo capo dello Stato) o avere la presidenza delConsiglio europeo nel 2014.


4- Pier Luigi Bersani. Politicamente è morto. Ma poteva andare perfino peggio. Se Napolitano avesse provato subito con un governo del presidente, magari con un nome interessante, il Pd avrebbe potuto spaccarsi. Una parte a sostegno del governo, un'altra col segretario. Adesso Bersani guadagna tempo: può cercare di gestire la successione alla segreteria del Pd, tutelando il suo gruppo dirigente di fedelissimi (da sempre una priorità per Bersani).
Ha anche la possibilità di accompagnare Renzi alla candidatura a premier o alla segreteria, evitando lacerazioni nel partito. Cosa che aiuterà il Pd a restare compatto ma ridurrà di molto l'appeal del rottamatore. Formalmente è ancora il premier incaricato, ma le probabilità che al termine del lavoro dei saggi e dopo il voto al Colle riesca davvero a diventare presidente del Consiglio sono molto vicine allo zero.


5- Matteo Renzi. Il sindaco di Firenze temeva di bruciarsi in questa fase di transizione. Si è solo un po' strinato, il suo nome è circolato troppo. Comunque sia, ora è considerato il salvatore (del Pd, del Paese, della democrazia...). E non solo dagli elettori del Pd. Potrebbe vincere per acclamazione, anche oltre i suoi meriti. Il protrarsi del vuoto di potere è la condizione ideale per rafforzare la presa sul partito e chiarirsi le idee sulla strategia da seguire per arrivare a palazzo Chigi senza ripetere gli stessi errori di Grillo (squadra non all'altezza, difficoltà di comunicazione, programma vago ecc.).

domenica 24 marzo 2013

La "agibilità politica" di Berlusconi blocca la "agibilità giudiziaria" nei suoi confronti....

Ancora una volta due pesi e due misure per i cittadini...

Da La Stampa:

Diritti Tv Mediaset

I giudici accolgono “l’agibilità politica”
Processo sospeso per quasi un mese


Formalmente si è trattato di un rinvio per il legittimo impedimento dell’imputato principale, ovvero Silvio Berlusconi. Ma aver stabilito una sospensione di quasi un mese del processo d’appello Mediaset, dove Berlusconi era stato condannato in primo grado a 4 anni di reclusione per frode fiscale, ha un altro significato.

Nei fatti, la corte d’appello presieduta dal giudice Alessandra Galli, per la prima volta ieri ha risposto, sebbene indirettamente, all’appello del capo dello Stato Giorgio Napolitano di consentire «l’agibilità politica» a Berlusconi, decidendo una moratoria di quasi 30 giorni del processo (prescrizione sospesa) e riconoscendo che l’impegno di ieri mattina del Cavaliere, occupato in una riunione dell’ufficio di presidenza con al centro le consultazioni per il nuovo governo, «va inquadrato in un contesto istituzionale», dato il particolare momento politico vissuto dal Paese, affinché dunque si decidano le sorti del futuro governo. Questo almeno è quanto viene certificato nell’ordinanza con la quale ieri, dopo un’ora di camera di consiglio, il processo d’appello Mediaset, ormai agli sgoccioli, è stato rinviato al 20 aprile. Data non casuale, visto che il 15 di quello stesso mese si dovrà rinnovare anche il Presidente della Repubblica.

Decisione che probabilmente nemmeno le difese si aspettavano visto che finora la Corte aveva respinto quasi tutte le richieste di rinvio per motivi politici avanzate dal Cavaliere e che il pg, Laura Bertolè Viali, si era espressa contro. I giudici, contestualmente, non hanno riconosciuto identico impedimento ai due difensori (Ghedini eletto in Senato e Longo in Parlamento). Inoltre, pur non avendo un obbligo formale di sospendere il dibattimento fino a quando la Cassazione non stabilirà se il ricorso per la remissione dei processi milanesi a Brescia è ammissibile, i giudici hanno dato un altro segnale importante in vista del giudizio della Suprema Corte decidendo che della questione, «preliminare e assorbente le altre» si discuterà soltanto alla ripresa delle udienze.

E se per allora non sarà giunto alcun segnale dalla Cassazione, è chiaro che la moratoria sui processi a Berlusconi proseguirà. Ora bisognerà capire se anche i giudici del processo Ruby si adegueranno alla linea della corte d’appello oppure daranno via libera domani alla parte finale della requisitoria di Ilda Boccassini. Rispetto all’udienza scorsa, in questo caso, l’unica novità è che Berlusconi sembra essere guarito dalla famosa uveite e dall’ipertensione.

Il periodo politico però è caldissimo ed è chiaro che domani i legali, ammesso che decidano di arrivare in aula, presenteranno nuovi legittimi impedimenti. A meno che, dopo aver proclamato ieri l’inizio della campagna elettorale, Berlusconi non decida qualche colpo di scena. La sentenza comunque, pendendo il ricorso in Cassazione, non potrà essere pronunciata. Di fatto, ancora una volta è il Cavaliere ad avere in mano il boccino.

paolo colonnello
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mercoledì 13 marzo 2013

Il PD nel cul di sacco...

Sempre di più appaiono i limiti della linea Bersani &c... Quando bisognerebbe essere cauti lui è (a suo modo) decisionista... Quando bisognerebbe apparire ed essere decisi, lui elude... fa battute di basso livello

Da La Stampa:

Ora impossibili i patti col Cavaliere
ma nel Pd c’è chi chiede prudenza

Si fa sempre più forte la convinzione che Berlusconi voglia andare subito al voto


È praticamente un coro: ammesso che ce ne fosse la possibilità - e soprattutto l’intenzione - da lunedì 11 marzo non si può più. Non si può più, cioè, immaginare il Partito democratico al governo - in qualsiasi forma - con Silvio Berlusconi.

Lo dice, con tutta la chiarezza possibile, Rosy Bindi, presidente dell’Assemblea nazionale del Pd.

«È chiaro e giusto, per le cose che sapevamo prima e per quello che è successo a Milano, che noi non si possa fare un governo con Berlusconi».

Lo dice Matteo Orfini, tra i leader dei «giovani turchi»: «Lo pensavo già prima di Milano che col Pdl non ci si può alleare: perché poi come fai le leggi in materia di corruzione, falso in bilancio e tutto il resto, con Silvio Berlusconi al governo con noi?». Già, come fai? Ma allo stesso modo, come lo fai un governo se con Berlusconi intese non se ne possono stringere e se Grillo non vuole stringerne con te? È la domanda senza risposta di queste due prime settimane post-voto. E se la forza della cronaca e dei fatti si incarica di introdurre novità, fino ad ora si è trattato di novità che hanno ristretto - piuttosto che allargare - lo spettro delle opzioni possibili. Si potrebbe dire che è comunque qualcosa, un elemento di chiarezza, cioè: ma un altro paio di elementi di chiarezza così, e la strada verso le elezioni rischia di trasformarsi in un’autostrada...

È per questo che, nonostante l’«assalto» al tribunale di Milano, dentro il Pd qualcuno reclama un minimo di prudenza. Nicola Latorre, per esempio, senatore cresciuto alla scuola politica di Massimo D’Alema: «Non vorrei essere drastico... Però è chiaro che i fatti di Milano rendono assai più problematica l’ipotesi di un governo con il Pdl. Ma a mio avviso la vera questione ormai è addirittura un’altra: proprio la scelta di manifestare davanti al Tribunale, segnala una rilevantissima novità, e cioè che Berlusconi vuole il voto. Ecco, il vero partito delle elezioni anticipate da ieri è il Pdl».

È una tesi della quale cominciano a essere convinti in molti nel Pd: e non rappresenterebbe un buon affare, visto che ancora ieri Beppe Grillo - a scanso di equivoci - ha regalato ad amici e nemici uno dei suoi inequivocabili tweet: «Se per caso non fosse chiaro, il Movimento Cinque Stelle non fa alleanze con nessun partito». E dunque? «Ora Bersani ha intorno al 30% delle possibilità di convincere i parlamentari di Grillo a votare la fiducia al suo governo», dice ancora Orfini: una percentuale che è meglio di niente, ma certo non può apparire rassicurante.

È anche per questo, per le oggettive difficoltà sul terreno, che all’interno del Pd si vedono fiorire posizioni che somigliano più a desideri che a proposte politiche. A metà pomeriggio, per esempio, Luigi Zanda (reduce da un indimenticabile incontro con una delegazione «grillina»: «Arrivavano uno alla volta, alla fine erano una quindicina che chattavano, registravano, non si capiva nulla...») Luigi Zanda, dicevamo, esprime una opinione così: «Basterebbe che Berlusconi si tirasse indietro. Non è più il 1994... non è amato come allora. Tre quarti dei gruppi parlamentari stanno con Alfano: e se il Cavaliere fa un passo indietro, un governo lo si riesce a mettere in piedi».

Anche quel che Rosy Bindi vede come ultima e unica soluzione possibile non appare di semplicissima realizzazione. «Dopo aver detto o Grillo o morte non è che possiamo tornare indietro, soprattutto dopo quanto accaduto. Sia il presidente della Repubblica, allora, a proporre un governo al Parlamento, e il Parlamento assuma le proprie responsabilità. Del resto, c’è qualcuno che pensa che tornare al voto con questa elegge elettorale ci dia un Senato governabile? Dobbiamo riformare quella legge, andare al pareggio di bilancio e poi, in autunno o nella primavera prossima, richiamare gli italiani alle urne».

Un governo del Presidente. Lo si è già ipotizzato nei giorni scorsi: ma con i voti di chi? «Forse non possiamo dire con chi - annota Matteo Orfini - ma possiamo dire mai senza chi: e io dico mai senza il Movimento Cinque Stelle, perché non si può escludere il primo partito del Paese. Dunque, il Pd deve dirsi disponibile a fare un governo solo se lo vota anche Grillo. Dopo di che, se loro dicono di no a tutto, non restano che le elezioni, con tutto quel che significa...».

A due settimane dal voto, dunque, nulla o quasi si è ancora mosso. Intanto la tensione sale, la situazione si incancrenisce e chissà per quanto ancora si potrà contare sull’indifferenza - se non la benevolenza - dei mercati. Prima o poi, il conto verrà presentato. E far finta di non saperlo è prova di massima irresponsabilità...

Federico Geremicca

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martedì 12 marzo 2013

Da Il Fatto Quotidiano: Stop a processi, il Colle cede a Berlusconi "Garantire sua partecipazione politica"

“Ho, negli anni del mio mandato, considerato e affrontato come problema essenziale quello del ristabilimento di un clima corretto e costruttivo nei rapporti tra giustizia e politica”. E’ la riflessione del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, al termine dell’annunciato incontro con il comitato di Presidenza del Consiglio Superiore della Magistratura. La riunione era stata decisa dal capo dello Stato dopo l’incontro con i parlamentari del Pdl che ieri hanno occupato il Tribunale di Milano per protestare contro i giudici che chiedevano il legittimo impedimento per Silvio Berlusconi, ricoverato da venerdì all’ospedale San Raffaele prima per una infiammazione agli occhi poi per uno scompenso. Condizione che ha permesso l’accoglimento dell’istanza della difesa del Cavaliere nel processo Ruby.

“A più riprese, anche e in particolare dinanzi al CSM, ho sottolineato come i protagonisti e le istanze rappresentative della politica e della giustizia non possano percepirsi ed esprimersi come mondi ostili, guidati dal sospetto reciproco, anziché uniti in una comune responsabilità istituzionale. E ho indicato nel più severo controllo di legalità un imperativo assoluto per la salute della Repubblica” da cui nessuno può considerarsi esonerato in virtù dell’investitura popolare ricevuta. Con eguale fermezza – si legge nella nota del Quirinale – ho sollecitato il rispetto di rigorose norme di comportamento da parte di ‘quanti sono chiamati a indagare e giudicare’, guardandosi dall’attribuirsi missioni improprie e osservando scrupolosamente i principi del ‘giusto processo’ sanciti fin dal 1999 nell’art. 111 della Costituzione con particolare attenzione per le garanzie da riconoscere alla difesa“. Ieri i difensori del Cavaliere avevano presentato l’istanza di legittimo impedimento al processo Ruby dopo che era stata respinta analoga richiesta nel processo Mediaset dopo l’esito della visita fiscale.

“In vari momenti, anche relativamente recenti, ho potuto constatare il manifestarsi di tensioni meno acute e di occasioni di collaborazione tra le diverse forze politiche, in materia di giustizia, e più pacati rapporti con la magistratura requirente e giudicante. Ma troppe divergenze e vere e proprie contrapposizioni hanno finito per prevalere, bloccando in effetti la possibilità di talune, cruciali riforme nell’amministrazione della giustizia e nel corpo delle norme che la regolano. E in questo momento – argomenta Napolitano – si registra purtroppo un’allarmante nuova spirale di polemiche tra voci che si levano dall’uno e dall’altro campo. Altamente apprezzabile è stata l’iniziativa adottata dal Comitato di Presidenza del CSM con la dichiarazione del 4 febbraio scorso, per auspicare ‘sia lo svolgimento della consultazione elettorale in corso sia la celebrazione dei processi in condizioni di maggiore serenità”, evitando nei limiti del possibile “interferenze tra vicende processuali e vicende politiche’. Quell’auspicio venne largamente accolto, ma non posso oggi che rinnovarlo con la massima convinzione. In effetti alle elezioni del 24 febbraio, e anche per effetto della situazione che ne è scaturita, ma soprattutto per l’estrema importanza e delicatezza degli adempimenti istituzionali che stanno venendo a scadenza, occorre evitare tensioni destabilizzanti - è l’appello del presidente – per il nostro sistema democratico. Quegli adempimenti chiamano in causa ed esigono il contributo di tutte le forze politiche rappresentate in Parlamento, e in particolar modo di quelle che hanno ottenuto i maggiori consensi”.

“E’ comprensibile la preoccupazione dello schieramento che è risultato secondo, a breve distanza dal primo, nelle elezioni del 24 febbraio, di veder garantito che il suo leader possa partecipare adeguatamente alla complessa fase politico-istituzionale già in pieno svolgimento, che si proietterà fino alla seconda metà del prossimo mese di aprile. Non è da prendersi nemmeno in considerazione l’aberrante ipotesi di manovre tendenti a mettere fuori giuoco – ‘per via giudiziaria’ come con inammissibile sospetto si tende ad affermare – uno dei protagonisti del confronto democratico e parlamentare nazionale. Rivolgo perciò con grande forza un appello al rispetto effettivo del ruolo e della dignità tanto della magistratura quanto delle istituzioni politiche e delle forze che le rappresentano. Un appello, che volentieri raccolgo dalle parole oggi pronunciate da autorevoli giuristi, affinché in occasione dei processi si manifesti da ogni parte ‘freddezza ed equilibrio’ e affinché da tutte le parti in conflitto – in particolare quelle politiche, titolari di grandi responsabilità nell’ordinamento democratico – si osservi quel senso del limite e della misura, il cui venir meno esporrebbe la Repubblica a gravi incognite e rischi”. Questa mattina il capo dello Stato aveva espresso rammarico per l’iniziativa del parlamentari del Pdl.