ebook di Fulvio Romano

venerdì 20 novembre 2015

“Disperati? No, del ceto medio Il disagio è soprattutto psicologico

LA STAMPA

Esteri

Imloul “cura” i jihadisti in erba: agire fin da piccoli

In linea d’aria è vicina ai luoghi del blitz di due giorni fa, a Saint-Denis. Sonia Imloul, 40 anni, dirige la Casa della prevenzione e della famiglia, nella periferia Nord di Parigi. In un luogo discreto e segreto, perché la donna è una delle maggiori esperte di quella che ormai in Francia chiamano la «deradicalizzazione» dei giovani jihadisti. Le famiglie possono chiamare un numero verde per chiedere aiuto, quando i loro figli danno segni di squilibrio, più o meno invasati dall’integralismo islamico. Nella capitale francese, la prefettura affida poi i casi più difficili a Sonia. Tra i ragazzi «curati» da lei nessuno è partito per la Siria.

Qual è il suo peggiore nemico? «Il tempo: prima si interviene e meglio è». Qual è il profilo tipo di questi giovani? «Bisogna liberarci di certi luoghi comuni, come la caricatura del ragazzo emarginato, abbandonato dai suoi genitori. Io ho a che fare con tanti che vengono dal ceto medio, da famiglie normali. E talvolta abbienti. Mi affidano anche molti convertiti, di famiglie francesi di origine, che con il mondo musulmano non avevano niente a che fare». Ma allora perché diventano degli invasati? «Hanno un malessere dentro. Spesso dei traumi nascosti e non ammessi. Abbiamo trattato una ragazza che era stata violentata da piccola e non l’aveva mai detto a nessuno. Uno dei problemi ricorrenti è anche l’assenza della figura del padre». Il ruolo della propaganda su Internet? «Quando uno inizia a guardare quei video, il 50% della radicalizzazione si è già compiuta». Questi giovani credono di vivere in un videogioco dove si fa la guerra? «Altro luogo comune. Quel discorso può valere per i ragazzi più piccoli. Abbiamo a che fare con giovani tra i 20 e i 25 anni. Sono ben coscienti che andranno a combattere davvero, che probabilmente moriranno». I fratelli belgi Abdeslam gestivano una birreria a Bruxelles. Non è strano per dei jihadisti? «Innanzitutto quello può essere un modo per camuffarsi e non farsi notare dai servizi segreti. Ma poi la maggior parte di questi giovani provengono da famiglie poco religiose o addirittura atee. Nella testa hanno un islam prefabbricato e fittizio». Lei come agisce concretamente? «Nella mia équipe ci sono psicologi e giuristi. E soprattutto assistenti sociali, quasi sempre coetanei di quelli che dobbiamo trattare. Tutti conoscono bene la religione musulmana. Dopo che la famiglia ha chiamato, mando uno dei miei collaboratori a incontrare il giovane: meglio se lui neanche sa che i genitori hanno contattato il numero verde. L’incontro avviene fuori dal contesto familiare». E poi? «Guardi, è come per gli chef che non vogliono rivelare i loro segreti. Noi abbiamo sviluppato delle tecniche che vogliamo tenere segrete. È un lavoro lento, laborioso. Ci vuole flessibilità, bisogna essere furbi». Un caso di cui è particolarmente fiera? «Un piccolo delinquente che si era avvicinato al jihadismo in prigione. Una volta fuori, la sua trasferta era già organizzata. Siamo riusciti a intercettarlo e, piano piano, a tirarlo fuori da quel mondo». E ora? «È ritornato a commettere qualche reato comune. Ma per me l’importante è che non vada in Siria. E che non diventi un kamikaze». [leo. mar.]


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