ebook di Fulvio Romano

martedì 10 novembre 2015

El Greco, il genio venuto dal futuro

LA STAMPA

Cultura


A Treviso una mostra sulla formazione italiana dell’artista

che si consacrò in Spagna, padre delle avanguardie del ’900

«Dove hai fallito torna, da dove hai vinto fuggi!». È un antico detto cretese che Nikos Kazantzakis, la gloria letteraria dell’isola, ricordava nelle prime pagine di Rapporto al Greco (da poco pubblicato da Crocetti nella pregevole traduzione dello stesso editore), costruito come una prolungata confessione della propria vita resa all’illustre conterraneo di qualche secolo prima. Nella sua Creta Domínikos Theotokópoulos non aveva certo fallito, essendosi affermato giovanissimo come uno dei più promettenti pittori di icone: e magari anche per questo non vi ritornò più, dopo esserne partito a 26 anni, nel 1567, lasciandovi una moglie e un figlio. Ma dall’approdo finale di Toledo, dove trascorse la seconda metà della sua esistenza, non fuggì mai: forse perché, nonostante la fama e gli onori, non vinse mai veramente, mai compreso appieno nel tempo della sua vita, e per alcuni secoli ancora.

E infatti nei documenti (non nei quadri, dove continuò a scrivere il proprio nome di battesimo nella lingua natia) si firmò sempre El Greco. Articolo spagnolo (ma anche veneziano) e aggettivo toponimico sostantivato italiano. Perché è in Italia, tra il 1567 al 1576, che si compì la svolta decisiva della sua personalità artistica, come bene illustra la mostra «El Greco in Italia. Metamorfosi di un genio», aperta a Treviso, alla Casa dei Carraresi, fino al 10 aprile (catalogo Skira).

Dalle icone all’arte latina

«Dal punto di vista linguistico, El Greco è un pittore per eccellenza italiano», rivendica Lionello Puppi, che lo studia da più di 60 anni e che ha curato la rassegna, validamente coadiuvato da Serena Baccaglini. Lo era già quando muoveva i primi passi a Candia, come veniva chiamata l’isola sotto il dominio dei Dogi, e cresceva alla scuola di Damaskinós e di Klóntzas (di cui sono esposte un paio di tavole, a rimarcare le iniziali affinità ma anche le differenze). A quel tempo c’era da soddisfare una committenza indigena e una veneziana, la sensibilità ortodossa e quella cattolica, e Domínikos si divertiva a contaminarle. È quanto si vede nello straordinario San Demetrio, di recentissima attribuzione, dove sul tradizionale fondo oro ignaro della profondità la ieratica fissità delle icone greco-ortodosse comincia a animarsi, e ai lati del trono compaiono due cariatidi, che l’artista non può avere desunto se non dai libri con le opere riprodotte a stampa in bianco e nero dei maestri d’Occidente.

Ma a lui non basta. La sua scommessa è il tentativo di tradurre il linguaggio dell’arte bizantina in quello della pittura latina, da un universo bidimensionale, astratto e immobile, avulso dalla temporalità, a uno concreto e dinamico che si fa racconto. E per riuscirvi ha bisogno di confrontarsi con gli originali. Inizia così il suo viaggio, che lo porta dapprima a Venezia. La mostra propone suggestivi accostamenti: con Bassano, Veronese, Tintoretto, soprattutto Tiziano, al cui San Francesco riceve le stimmate è accostata la tela (1570-71) del cretese, quasi identica per postura e disegno del santo; mentre per trovare il modello dell’Annunciazione dipinta su un pannello dell’altarolo di un crociato (1567-68) basta fare pochi passi, a Treviso, e andarsi a vedere quella tizianesca in una cappella del Duomo. Comincia la scoperta della prospettiva e della luce, ottenuta con l’uso generoso di intarsi a foglia d’oro.

La gaffe su Michelangelo

Quindi Domínikos si sposta a Roma, a studiare Vasari, gli Zuccari, l’amato-odiato Michelangelo, da poco scomparso ma di cui ancora aleggia l’ingombrante presenza («un brav’uomo», dirà di lui, «ma non sapeva dipingere»). Lo ospita il cardinale Alessandro Farnese, eminenza grigia della Chiesa e gran mecenate. Ma il giovane cretese compie un passo falso: saputo che Pio V disapprova l’indecenza di certi nudi nel Giudizio universale della Cappella Sistina, si offre di rifarla daccapo. Il Farnese lo mette alla porta, l’artista («non trovo in me occasione né causa per la quale meritassi questo scorno», scrive in una lettera al cardinale, datata 2 luglio 1572) si vendicherà nella Guarigione del cieco, di poco successiva, dove dallo sfondo, in cui si profilano le terme di Diocleziano, è obliterata la michelangiolesca chiesa di Santa Maria degli Angeli (tra i personaggi della tela si intravedono peraltro Alessandro Farnese junior e Juan de Austria, eroi della battaglia di Lepanto, e tutta l’opera può essere interpretata come un’esortazione all’Occidente, e in particolare a Venezia che si era ritratta dalla Lega Santa, ad aprire gli occhi davanti al pericolo ottomano).

Cacciato da Roma, El Greco risale la Penisola. Sappiamo che soggiornò in Umbria, nella Marche, in Emilia, dove risentì l’influenza del Parmigianino e del Correggio (di cui sono esposti, rispettivamente, la Madonna di san Zaccaria e la Sacra famiglia). È in questi anni biograficamente oscuri, lontano dalle esigenze della committenza mecenatesca, che il pittore affina quella tendenza all’allungamento delle figure sviluppate come lingue di fuoco anelanti il cielo, all’accostamento di colori acidi - verdi, azzurri, rossi, rosa, gialli inusuali per la pittura del tempo - che saranno la cifra della sua arte in Spagna. Dove la «metamorfosi del genio» si compie definitivamente.

Nelle ultime sale se ne vedono i risultati: nel Salvatore benedicente (1600-1610), in una Crocifissione post 1590 di drammatica tensione ascensionale-emotiva (El Greco si era convertito alla fede cattolica, che viveva in modo intransigente, da crociato - nonostante dividesse il talamo con un’amante spagnola, Jerónima de las Cuevas, che non sposò mai e dalla quale ebbe un secondo figlio), accostata per contrasto a un Cristo morto in croce del 1572-73 che pare quasi emergere come un bassorilievo, e affiancata da diversi modelli studiati in Italia (tra gli altri, un Corpus Christi bronzeo del Giambologna).

Un viaggio nel tempo

In Spagna Domínikos viaggia ancora, non più nello spazio ma nel tempo. «El Greco è cubista» dirà infatti Picasso, le cui Demoiselles d’Avignon, nella versione realizzata nel 1958 su cartone per ricavarne un arazzo, sono messe a confronto nella Casa dei Carraresi con l’Adorazione dei pastori e il Battesimo di Cristo (1600-1605), due tele dell’artista che da giovane l’aveva sconvolto (tanto da siglare una serie di ritratti con le parole «Yo soy El Greco»). Un pittore cubista ma, si potrebbe dire, anche espressionista, di cui si intuiscono le reminiscenze in Schiele e Kokoschka. E poi in Pollock, Giacometti, Bacon… Da Creta alla Spagna, Domínikos Theotokópoulos ha compiuto un viaggio attraverso le culture, passando dal Medioevo artistico bizantino al pieno Novecento. Padre di tutte le avanguardie, tre secoli dopo ha vinto davvero. 

Maurizio Assalto


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