Italia
Quel paese delle Langhe
che neppure Pavese
riuscirebbe a riconoscere
La casa museo a Santo Stefano Belbo abbandonata a se stessa
La casa museo a Santo Stefano Belbo abbandonata a se stessa
Porte chiuse e non da ieri. A segnare il tempo sono le ragnatele che incorniciano le finestre. Le porte, quelle aperte, fanno rimpiangere le prime che almeno hanno preservato l’ignoto buongusto dell’immaginazione. Perchè i luoghi di Cesare Pavese è meglio immaginarli. Lasciarli tra le righe de «I racconti» e i versi di «Lavorare stanca». Perchè quell’odore di vendemmie, fienagioni e sfogliature oggi restano addosso anche a chi quelle colline del cuneese non le ha mai viste, a chi non ha mai assaporato il caldo di vigne pettinate e canneti imbionditi.
«Il mio paese sono quattro baracche e un gran fango, ma lo attraversa lo stradone provinciale dove giocavo da bambino. Siccome sono ambizioso, volevo girare per tutto il mondo e, giunto nei siti più lontani, voltarmi e dire in presenza di tutti: non avete mai sentito nominare quei quattro tetti? Ebbene, io vengo di là». Quelle «quattro baracche» sotto le quali affonda le unghie l’anima dolorante e superba di Cesare Pavese oggi sono conosciute in tutto il mondo. Ci è riuscito, l’autore de «La luna e i falò», a portare il nome di Santo Stefano Belbo (4 mila abitanti) in America, in Russia e persino in Giappone. Eppure non è sufficiente per rendere questo posto all’altezza di un turismo culturale internazionale. Non ci sono soldi. La Fondazione si è vista tagliare il budget del 70 per cento in cinque anni. A gestire tutto è rimasto un direttore, con contratto part time, e qualche volontario.
Prima tappa del tour, la sede della Fondazione. Ad accogliere i turisti, qualche italiano e numerosi tedeschi, una corda tesa che sbarra l’accesso. Scavalcandola, si sale lungo la scalinata della chiesa sconsacrata dei Santi Giacomo e Cristoforo, che si snoda a sinistra verso la porta d’ingresso della Fondazione. Chiusa. Un’occhiata agli orari. Il cartello è spartano quanto amletico: itinerari pavesiani 2013 (solo su prenotazione), apertura dal martedì al sabato (10-12,30;15 -18,30). Il lunedì è coperto da dieci centimetri di nastro per pacco, marrone scuro. La domenica nemmeno quello, solo uno spazio bianco al posto degli orari. Girare le spalle al portone e ripercorrere la scalinata in discesa, non è una decisione semplice. Comporta la rinuncia a troppe cose: le sue due pipe, la penna, ma soprattutto la copia originale dei Dialoghi con Leucò su cui lo scrittore ha vergato l’ultima frase prima di morire: «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi». Che fare? Si passa, a malincuore, alla seconda tappa.
La casa- museo di Nuto. E’ lui a fare da «coscienza langarola» al Pavese di città, che ha lasciato le colline per studiare a Torino, ma che ha la mente ancorata a quelle vigne e al loro riverbero «di grillaia e di tufi». Il laboratorio-museo di Nuto si trova poco prima della Mora, per la sua posizione, affacciata sulla strada per Canelli, era un po’ una finestra aperta sul mondo. Tutti erano obbligati a passargli davanti: a piedi, in bicicletta, con il carro e i buoi. Oggi le ragnatele avvolgono quel che resta degli infissi, la porta a vetri chiusa a chiave lascia intravedere poco o nulla dall’esterno. Non si entra neanche qui.
La casa dove Pavese nacque nel 1908. Tenuta aperta solo da volontari, è divisa su due piani. Tra le decine di oggetti di vario genere, quadri di appassionati e dilettanti, fiori finti accanto al letto dei genitori, una miriade di ritagli di giornale e foto in bianco e nero chiuse da vetrine impolverate, difficile trovare un fil rouge da seguire per avere un percorso, più o meno dettagliato, dell’infanzia dello scrittore. Si esce con lo stesso bagaglio con cui si è entrati.
L’Albergo dell’Angelo. Quando, ne La luna e i falò, Anguilla (Pavese) torna al paese dopo tanti anni soggiorna lì, nella piazza centrale del paese. Da questo balcone il protagonista osserva la festa patronale di San Rocco e nel racconto La langa si propone nello stesso luogo la stessa situazione «Quest’estate sono sceso all’albergo dell’Angelo, sulla piazza del paese, dove più nessuno mi conosceva…». Oggi sarebbe lui a non riconoscere più quel luoghi. L’Albergo è chiuso. Un elemento che, di per sé, non sarebbe negativo se non avesse lasciato il posto ad un bar, in cui il grande murales esterno con il viso di Pavese è incorniciato dalla scritta «Bar Sport», adombrata dagli ombrelloni blu di gelati Sammontana. L’interno del locale sa essere all’altezza del dehors. Immagini di donne ammiccanti coprono, non abbastanza, le pareti in tessuto zebrato sullo stile dei priveè aperti il sabato pomeriggio. A ricordare chi e cosa hanno visto quelle pareti, oggi occupate da luccicanti slot machine, resta solamente una targa gialla, al primo piano: «L’Albergo dell’Angelo, itinerari pavesiani».
Sarebbe stato meglio trovare chiuso anche questo. Soprattutto, questo.
laura secci