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Ritrovata la collezione messa assieme tra ’800 e ’900 da un ufficiale degli alpini
Savigliano ha deciso di bonificare i chicchi e provare a farli germogliare
Ritrovata la collezione messa assieme tra ’800 e ’900 da un ufficiale degli alpini
Savigliano ha deciso di bonificare i chicchi e provare a farli germogliare
Mille varietà di frumento. È il tesoro scoperto a Savigliano, in provincia di Cuneo, dopo oltre mezzo secolo di oblio e abbandono. Una collezione realizzata a cavallo tra ’800 e ’900 da un ufficiale degli Alpini, la cui storia è tuttora avvolta nel mistero. A raccogliere l’immenso patrimonio, Vincenzo Stevano, che, ormai in pensione, decise di dedicarsi alla sua grande passione: il frumento. Vicino alla cascina Baiotta di sua proprietà, diede così vita a coltivazioni sperimentali. In piccoli appezzamenti quadrati, seminò grano proveniente da Europa, Africa, Asia, America, Oceania.
Paziente e meticoloso, tra il 1922 e il 1927, catalogò tutte le varietà, con l’aiuto della moglie Maria Canubi di Tourettas e della giovanissima vicina di casa Rinuccia Brero. Insieme crearono quella che ancora oggi è la struttura della raccolta: 18 bacheche verticali, ognuna suddivisa in 25 teche, a loro volta ripartite in due metà; in ogni settore posero due spighe, una descrizione dettagliata e le cariossidi, ovvero i chicchi. È il 1927: il capitano Stevano, che morirà 6 anni dopo, decise di donare l’intera raccolta al Comune per renderla pubblica. Dapprima collocata nell’attuale Municipio, la collezione subì diversi traslochi e fu vittima di umidità, batteri, insetti, colombi e roditori. Trasferita all’ex caserma Trossarelli, fu poi collocata nell’ex convento San Domenico e, infine, nel 2012, trasferita al locale Santuario della Sanità. È proprio qui che inizia il suo percorso di recupero e valorizzazione.
«La collezione ha un significato profondo per la città - spiega l’assessore alla Politiche culturali Chiara Ravera - Savigliano ha una forte tradizione agricola. Questa raccolta merita di tornare ad avere l’importanza che le spetta». Primo «step» del progetto, un’accurata disinfestazione: «Nei prossimi mesi - spiega la biologa Valentina Carasso, responsabile tecnico scientifico del recupero - il materiale verrà stoccato in un congelatore ad una temperatura di -20° con passaggi a temperatura ambiente. Questo dovrebbe permettere di neutralizzare le uova dei parassiti ancora eventualmente presenti nelle cariossidi». A quel punto, ogni teca sarà attentamente vagliata, selezionando le varietà compromesse da quelle intatte.
«Nota la reale condizione della raccolta - prosegue Carasso - in accordo con l’Istituto Sperimentale per la Cerealicoltura di Sant’Angelo Lodigiano si potranno fare analisi più specifiche per risalire alla classificazione reale, stilare un catalogo completo e individuare una sistemazione ed organizzazione il più possibile fedele a quella concepita da Stevano». Nessun dubbio, quindi, circa l’importanza che la raccolta potrà rivestire da un punto di vista didattico e culturale. La «germinabilità», ovvero la possibilità di seminare i chicchi eventualmente ancora vitali e ottenere una produzione, invece, è tutta da scoprire. «L’ipotesi più reale - spiega la dottoressa Paola Migliorini dell’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, partner di progetto - è, una volta stilato un catalogo, poterlo ricostruire attraverso le Banche del Germoplasma mondiali. Con una messa a coltura sperimentale, proprio come Stevano fece e come abitualmente facciamo a Pollenzo, si potrebbero verificare le cosiddette “caratteristiche agronomiche, tecnologiche e anche funzionali”, ovvero capaci di avere un ruolo protettivo rispetto alle grandi malattie sociali. Senza contare - prosegue la Migliorini - la possibilità di reinserire varietà non presenti nel catalogo varietale nazionale a disposizione di ditte sementiere e agricoltori».
È proprio questo il vero tesoro della collezione: l’essere un patrimonio storico capace di fotografare quella che era la biodiversità del frumento e di altri cereali nel secolo scorso. «Ci darà un’idea di come si è modificato il patrimonio genetico - chiarisce Migliorini - e di ciò che abbiamo perso in circa 100 anni di profondi cambiamenti sociali. Cambiamenti che hanno trasformato l’agricoltura di tipo familiare in una meccanizzata, intensiva e specializzata che richiede elevati input esterni per aumentare le rese e ottenere farine adatte a una filiera industriale».
giulia scatolero