ebook di Fulvio Romano

lunedì 14 luglio 2014

Non è tutto Duce quello che Luce (mostra a Roma)

LA STAMPA

Cultura

Non è tutto Duce

quello che Luce

A Roma una mostra sull’Istituto nato nel ’24 per celebrare

l’Italia fascista: ma tra i filmati spuntano immagini

che documentano una realtà diversa da quella ufficiale

Anche chi non sa niente della storia del fascismo capisce benissimo di cosa si tratta se si parla di «film Luce», un termine che nel linguaggio comune indica uno strumento propagandistico piegato alle esigenze di un regime totalitario. In effetti «la Luce» è una sigla; sta per «L’Unione Cinematografica Educativa» e designa l’ente varato dal fascismo nel 1924 con il compito di raccontare e celebrare l’Italia di Mussolini. A partire dal 1926 la proiezione dei film prodotti dall’Istituto Luce divenne obbligatoria in tutti i cinema. Fu l’arma decisiva per assicurare al fascismo un consenso di massa; in un Paese ancora largamente analfabeta, le sue immagini avviarono la costruzione di un immaginario comune organizzato intorno al culto del Duce.

Diffuso capillarmente, in modo efficiente (i cinemobili, automezzi attrezzati per le proiezioni all’aperto, arrivavano nei paesi più sperduti) e tecnicamente all’avanguardia, il Luce, insieme con la radio, gestì i tre settori chiave per il regime: educazione, informazione e propaganda. Il risultato di quella attività si ritrova oggi nei suoi archivi: cinquemila ore di film e tre milioni di fotografie, un giacimento sterminato che proprio per queste sue dimensioni riserva però molte sorprese. Per quanto occhiuto e ossessivo fosse il controllo della dittatura sulla sua produzione, era praticamente impossibile che in quella valanga di immagini su cui il regime fondava la propria autorappresentazione non si insinuassero anche quelle che sfuggivano agli occhi del censore. Ma, viste con gli occhi di oggi, anche quelle più esplicitamente propagandistiche documentano una realtà diversa da quella intenzionalmente messa in scena dal fascismo.

Esemplare, in questo senso, è la mostra «Luce, l’immaginario italiano», aperta fino al 21 settembre al Vittoriano di Roma, per celebrare i 90 anni dalla fondazione. Gabriele D’Autilia, il curatore, si è impegnato con successo in un’operazione intellettualmente affascinante: far parlare quelle fotografie e quelle pellicole «malgrado sé stesse», forzando le intenzioni dei suoi autori, rompendo il nesso che le legava agli scopi del regime per restituirle alla storia del nostro Novecento. Dall’Unità nazionale in poi, per «fare gli italiani» era stato necessario costruire un repertorio di immagini con cui poter immaginare l’Italia, ovviando all’assenza di una geografia comune, alla frammentazione del nostro Paese in tanti luoghi separati e sconosciuti gli uni agli altri. Nell’Italia liberale, ad assolvere questo compito furono i quadri dei pittori risorgimentali, poi fotografi come gli Alinari; con il fascismo il ruolo venne assunto e ingigantito proprio dall’Istituto Luce.

Ed è proprio per il modo in cui il Luce operò nella costruzione di un immaginario italiano che oggi, nella raccolta proposta dalla mostra la realtà vince sulla rappresentazione della realtà. Così, tra le architetture razionali, il gigantismo industriale, l’imponenza dei lavori pubblici e delle altre opere del regime, ci si sorprende nel vedere affiorare i volti e i gesti di un’Italia contadina, arcaica, ancora esclusa dai percorsi della modernità. Anche dall’intreccio tra fascismo e «bonifica integrale» deriva una considerazione suggerita dall’immagine di Mussolini a torso nudo, immortalato nella calura della trebbiatura in un podere dell’Agro Pontino. Tra le tante fotografie di Mussolini, questa in particolare è importante proprio perché propone la figura del dittatore nei panni dell’uomo che ha sconfitto la «malvagità» della natura, è stato in grado di renderla benefica e produttiva, tanto da fondare su quel suolo ingrato nuove città destinate a presidiare un territorio finalmente conquistato alla civiltà. Ma si trattò di una vittoria effimera. Pochi anni dopo, nel corso della Seconda guerra mondiale, quando nel gennaio del 1944 gli eserciti alleati sbarcarono ad Anzio, i tedeschi per rallentarne l’avanzata utilizzarono i canali come trincee e allagarono più di 12 mila ettari di terreno. E la natura - questa volta grazie all’uomo - si prese la sua rivincita, coprendo d’acqua quella terra che le era stata contesa con tanti sacrifici.

Sono soprattutto i corpi, la fisicità degli italiani di allora, i loro volti scavati dalla fatica, il loro sguardo rassegnato, a sfidare la monumentalità inseguita dai fotografi e dagli operatori del Luce. Corpi scolpiti da lavori arcaici, quasi che l’industrializzazione fosse solo un velo sottile disteso a coprire un’Italia ancora premoderna; corpi gonfi e panciuti di militari e gerarchi, quasi a seppellire nel grottesco l’enfasi guerriera del regime.

Quando, nel dopoguerra, all’Istituto Luce subentrarono i cinegiornali della settimana Incom, le immagini diventarono più democratiche, più pluraliste, ma i corpi restarono gli stessi. Il bracciante comunista che salutava con il pugno chiuso e i coltivatori diretti democristiani riproponevano un’antropologia nemmeno scalfita dalla fine del fascismo. E i corpi delle donne restavano quelli opulenti e matronali delle «maggiorate» o quelli sfiancati dalle gravidanze delle «mamme» prolifiche. Poi arrivò il boom economico. A «fare gli italiani» subentrarono i consumi; il mercato introdusse con successo i suoi riti e i suoi miti in un immaginario italiano la cui estetica si ridefinì nella dimensione che è quella in cui viviamo oggi e che ci fa guardare alle immagini del Luce come a un colossale reperto archeologico.

Giovanni De Luna


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