Italia
venerdì 24 novembre 2017
Roma La capitale accerchiata dai roghi tossici chiede l’intervento dell’esercito
Italia
La capitale accerchiata
lunedì 14 luglio 2014
Non è tutto Duce quello che Luce (mostra a Roma)
Cultura
Non è tutto Duce
quello che Luce
A Roma una mostra sull’Istituto nato nel ’24 per celebrare
l’Italia fascista: ma tra i filmati spuntano immagini
che documentano una realtà diversa da quella ufficiale
A Roma una mostra sull’Istituto nato nel ’24 per celebrare
l’Italia fascista: ma tra i filmati spuntano immagini
che documentano una realtà diversa da quella ufficiale
Anche chi non sa niente della storia del fascismo capisce benissimo di cosa si tratta se si parla di «film Luce», un termine che nel linguaggio comune indica uno strumento propagandistico piegato alle esigenze di un regime totalitario. In effetti «la Luce» è una sigla; sta per «L’Unione Cinematografica Educativa» e designa l’ente varato dal fascismo nel 1924 con il compito di raccontare e celebrare l’Italia di Mussolini. A partire dal 1926 la proiezione dei film prodotti dall’Istituto Luce divenne obbligatoria in tutti i cinema. Fu l’arma decisiva per assicurare al fascismo un consenso di massa; in un Paese ancora largamente analfabeta, le sue immagini avviarono la costruzione di un immaginario comune organizzato intorno al culto del Duce.
Diffuso capillarmente, in modo efficiente (i cinemobili, automezzi attrezzati per le proiezioni all’aperto, arrivavano nei paesi più sperduti) e tecnicamente all’avanguardia, il Luce, insieme con la radio, gestì i tre settori chiave per il regime: educazione, informazione e propaganda. Il risultato di quella attività si ritrova oggi nei suoi archivi: cinquemila ore di film e tre milioni di fotografie, un giacimento sterminato che proprio per queste sue dimensioni riserva però molte sorprese. Per quanto occhiuto e ossessivo fosse il controllo della dittatura sulla sua produzione, era praticamente impossibile che in quella valanga di immagini su cui il regime fondava la propria autorappresentazione non si insinuassero anche quelle che sfuggivano agli occhi del censore. Ma, viste con gli occhi di oggi, anche quelle più esplicitamente propagandistiche documentano una realtà diversa da quella intenzionalmente messa in scena dal fascismo.
Esemplare, in questo senso, è la mostra «Luce, l’immaginario italiano», aperta fino al 21 settembre al Vittoriano di Roma, per celebrare i 90 anni dalla fondazione. Gabriele D’Autilia, il curatore, si è impegnato con successo in un’operazione intellettualmente affascinante: far parlare quelle fotografie e quelle pellicole «malgrado sé stesse», forzando le intenzioni dei suoi autori, rompendo il nesso che le legava agli scopi del regime per restituirle alla storia del nostro Novecento. Dall’Unità nazionale in poi, per «fare gli italiani» era stato necessario costruire un repertorio di immagini con cui poter immaginare l’Italia, ovviando all’assenza di una geografia comune, alla frammentazione del nostro Paese in tanti luoghi separati e sconosciuti gli uni agli altri. Nell’Italia liberale, ad assolvere questo compito furono i quadri dei pittori risorgimentali, poi fotografi come gli Alinari; con il fascismo il ruolo venne assunto e ingigantito proprio dall’Istituto Luce.
Ed è proprio per il modo in cui il Luce operò nella costruzione di un immaginario italiano che oggi, nella raccolta proposta dalla mostra la realtà vince sulla rappresentazione della realtà. Così, tra le architetture razionali, il gigantismo industriale, l’imponenza dei lavori pubblici e delle altre opere del regime, ci si sorprende nel vedere affiorare i volti e i gesti di un’Italia contadina, arcaica, ancora esclusa dai percorsi della modernità. Anche dall’intreccio tra fascismo e «bonifica integrale» deriva una considerazione suggerita dall’immagine di Mussolini a torso nudo, immortalato nella calura della trebbiatura in un podere dell’Agro Pontino. Tra le tante fotografie di Mussolini, questa in particolare è importante proprio perché propone la figura del dittatore nei panni dell’uomo che ha sconfitto la «malvagità» della natura, è stato in grado di renderla benefica e produttiva, tanto da fondare su quel suolo ingrato nuove città destinate a presidiare un territorio finalmente conquistato alla civiltà. Ma si trattò di una vittoria effimera. Pochi anni dopo, nel corso della Seconda guerra mondiale, quando nel gennaio del 1944 gli eserciti alleati sbarcarono ad Anzio, i tedeschi per rallentarne l’avanzata utilizzarono i canali come trincee e allagarono più di 12 mila ettari di terreno. E la natura - questa volta grazie all’uomo - si prese la sua rivincita, coprendo d’acqua quella terra che le era stata contesa con tanti sacrifici.
Sono soprattutto i corpi, la fisicità degli italiani di allora, i loro volti scavati dalla fatica, il loro sguardo rassegnato, a sfidare la monumentalità inseguita dai fotografi e dagli operatori del Luce. Corpi scolpiti da lavori arcaici, quasi che l’industrializzazione fosse solo un velo sottile disteso a coprire un’Italia ancora premoderna; corpi gonfi e panciuti di militari e gerarchi, quasi a seppellire nel grottesco l’enfasi guerriera del regime.
Quando, nel dopoguerra, all’Istituto Luce subentrarono i cinegiornali della settimana Incom, le immagini diventarono più democratiche, più pluraliste, ma i corpi restarono gli stessi. Il bracciante comunista che salutava con il pugno chiuso e i coltivatori diretti democristiani riproponevano un’antropologia nemmeno scalfita dalla fine del fascismo. E i corpi delle donne restavano quelli opulenti e matronali delle «maggiorate» o quelli sfiancati dalle gravidanze delle «mamme» prolifiche. Poi arrivò il boom economico. A «fare gli italiani» subentrarono i consumi; il mercato introdusse con successo i suoi riti e i suoi miti in un immaginario italiano la cui estetica si ridefinì nella dimensione che è quella in cui viviamo oggi e che ci fa guardare alle immagini del Luce come a un colossale reperto archeologico.
Giovanni De Luna
giovedì 10 luglio 2014
Roma, la capitale dei rifiuti
Italia
Roma capitale dei rifiuti
“E qui il sindaco
vorrebbe i turisti?”
Dalle periferie al Colosseo, viaggio nell’emergenza
tra bottiglie a terra e sacchi che marciscono al sole
Dalle periferie al Colosseo, viaggio nell’emergenza
tra bottiglie a terra e sacchi che marciscono al sole
La Caporetto dell’Ama, la municipalizzata che ha il compito di mantenere pulita Roma, è in via Capo d’Africa, una strada lunga e dritta a due passi dal Colosseo. Al numero 23, annunciato da una grande targa con il logo dell’Ama, si trova lo «Sportello Tariffa». Ecco, in questi giorni, i romani entrano, pagano quello che devono pagare, e quando escono hanno davanti ai loro occhi il frutto del loro gesto: cassonetti pieni fino all’orlo, sacchetti in attesa sui marciapiedi da giorni che qualcuno li prelevi.
Roma è sempre più sporca, lo sa bene anche Ignazio Marino che in questo suo primo anno da sindaco ha già mandato a casa un presidente dell’azienda ma è ancora lontano dall’aver risolto i problemi dei rifiuti nella Capitale. Se ne sono resi conto e hanno iniziato a protestare anche volti noti come il giornalista Bruno Vespa e l’architetto Massimiliano Fuksas. Se ne sono resi conto da molto tempo i romani. Basta avvicinarsi ad un cassonetto con una macchina fotografica per ottenere applausi e incoraggiamenti. «Fotografate, scrivete ai giornali, andate a vedere in che condizioni dobbiamo vivere, non ne possiamo più», grida Sandro, trent’anni, tutti vissuti nel quartiere Oppio.
L’azienda si giustifica spiegando che i marciapiedi sono di nuovo pieni di sacchetti che nessuno porta via per problemi di funzionamento di alcuni impianti. La verità è un’altra e meno rassicurante: il sistema di Roma non è in grado di reggere un carico di rifiuti indifferenziati che è quasi del 70%.
Dal primo ottobre dello scorso anno Marino è riuscito nell’impresa di far chiudere Malagrotta, la discarica più grande d’Europa, dove finiva tutto quello che i romani buttavano via senza alcun tipo di trasformazione e al di fuori di ogni regola.
Ma l’alternativa è questa. Cinquantamila cassonetti per 2 milioni e ottocentomila abitanti, che con i pendolari del lavoro, raggiungono quasi tre milioni e mezzo di persone, una quantità di rifiuti da raccogliere ogni giorno pari a 5 mila tonnellate, e una buona parte che resta in strada.
Cassonetti e marciapiedi sono pieni alle tre del pomeriggio a due passi dal Colosseo e dai Fori Imperiali pedonalizzati. «E qui il sindaco vuole mandare i turisti. La sentite la puzza? È estate: questi rifiuti sono qui da tre giorni», spiega la signora Filomena che ha un appartamento con finestre proprio sopra i cassonetti. Anche a Trastevere la situazione è quella che è. Qui la raccolta differenziata si fa in strada, le famiglie portano le buste di rifiuti in alcune ore e in alcuni luoghi stabiliti. In teoria un furgone dell’Ama dovrebbe passare nel giro di mezz’ora, al massimo un’ora, e portare via tutto. Nella realtà le buste restano per intere giornate abbandonate in alcune delle zone più belle della Capitale. Ieri era il giorno di raccolta della carta, nel pomeriggio le strade erano una distesa di sacchi in speranzosa attesa.
E questi sono i quartieri di Roma dove maggiore è l’attenzione di operatori e azienda. Se ci si lascia alle spalle il centro e ci si dirige verso la periferia si può trovare di tutto. Anche zone dove i cassonetti sono perfettamente vuoti ma con le strade invase da ogni tipo di rifiuti come accadeva ieri all’Eur dove giornali, bottiglie di birra, buste di plastica, foglie, resti che il tempo ha reso irriconoscibili stazionavano sui marciapiedi. Come se nelle strade fossero regolarmente passati i furgoni per lo svuotamento dei cassonetti ma le squadre che dovrebbero lavorare di ramazza avessero deciso di prendersi una vacanza. E poi San Lorenzo, il Quadraro, la Tuscolana, la Flaminia e la Magliana dove i cassonetti sono da anni svuotati con chirurgica precisione solo da interi insediamenti di rom. Oppure la Tiburtina, a poche decine di metri dalla stazione, dove il problema principale non sono i cassonetti ma vere e proprie discariche create tra un pilone e l’altro dei sottopassi della tangenziale.
Marino è furibondo. Giudica lo spettacolo nelle strade di Roma «inaccettabile e intollerabile» e promette punizioni. «Credo sia venuto il momento di far saltare qualche testa», avverte. Sul futuro si mostra ottimista: «Abbiamo una strategia». Romani e turisti di tutto il mondo lo sperano davvero.
FLAVIA AMABILE
domenica 6 luglio 2014
La beffa del federalismo fiscale: ha aumentato le tasse per tutti. Di più a Roma, di meno a Cuneo
Economia
Più tasse per tutti, la beffa
del federalismo fiscale
Boom delle imposte locali con il taglio dei trasferimenti. E il decentramento fa crescere gli squilibri: un’azienda di Roma lavora per lo Stato due mesi in più di una di Cuneo
Un piccolo imprenditore milanese quest’anno smetterà di lavorare per pagare le tasse il 27 agosto. Un torinese tre giorni prima, il 24. A quel punto avrà poco più di quattro mesi per occuparsi di se stesso e del proprio profitto. Se però la sua attività fosse insediata altrove, potrebbe chiudere i suoi conti con il Fisco anche un mese prima. A Cuneo, il suo «tax free day», il giorno in cui si libera dalla morsa dello Stato, sarebbe addirittura il 25 luglio, a Gorizia e Sondrio il 28. In fondo, è meglio che non si lamenti. Potrebbe andare peggio: ad esempio, i suoi colleghi romani o bolognesi annasperanno fino al 29 settembre, come i fiorentini e i reggini; i cremonesi fino al 17, i biellesi all’11.
Il più grande prestigiatore di questi ultimi anni è stato il Fisco: tra i 2007 e il 2014 lo Stato ha eliminato ai Comuni trasferimenti per 7,5 miliardi. E i sindaci si sono rivalsi su cittadini e imprese, aumentando le imposte locali. Ovviamente per 7,5 miliardi. I presidenti di Regione, poi, ci hanno messo del loro, facendo lievitare le addizionali Irpef di 2,4 miliardi. Risultato: non solo il macigno fiscale sulle imprese si è appesantito (la pressione sui profitti delle aziende è passata dal 59,1% del 2011 al 63,1 del 2014), ma soprattutto si è diversificato da regione a regione e, ancor di più, da città a città, producendo grossolani squilibri anche a distanza di pochi chilometri, realtà dove mantenere un’attività è diventato un atto d’eroismo più che una scommessa.
L’osservatorio permanente degli artigiani di Cna sulla tassazione delle piccole e medie imprese mostra un’Italia formato ottovolante, dove un artigiano romano perde per strada (lasciandoli a Stato, regione e comune) il 74,4% dei suoi profitti, un milanese il 65,1%, un cuneese il 56,2%. Fino al 2011 il quadro era molto più uniforme. Poi è arrivata l’Imu. Dopo ancora la Tares, che oggi si chiama Tari. Infine la Tasi. E una quota sempre più consistente della leva fiscale è passata nelle mani dei sindaci. Doveva essere il principio base del federalismo: il risultato, per ora, è un feroce e diffuso aumento della pressione fiscale. Ma non dappertutto. O, almeno, non con le stesse dimensioni.
Ad esempio, a Roma, il Comune fa pagare alle aziende 8 mila euro di Imu (o Tasi) e 6 mila di tassa rifiuti, Bologna tartassa i fabbricati (10.700 euro) ma è meno esosa sull’immondizia (2.700). Sommando le imposte, parliamo comunque di 13-14 mila euro, mentre Cuneo si accontenta di 2.600 euro in tutto, Arezzo di nemmeno 4 mila. Reggere la concorrenza, con disparità così macroscopiche, diventa una chimera.
Tre anni fa non c’era poi tutta questa differenza: il carico fiscale su un’azienda romana era il 65,7%; per una partita iva cuneese, all’opposto della classifica, era il 55,3%. La situazione del cuneese non è cambiata granché - anche se di certo non è migliorata -, in compenso i romani sono rimasti strangolati: per loro la pressione del Fisco è cresciuta del 10%. E il gap con i territori che meno s’accaniscono sui contribuenti è raddoppiato. In un certo senso chi fa impresa là dove i tributi locali sono fortemente aumentati è penalizzato due volte: dall’eccessivo peso fiscale che grava su tutte le aziende italiane, e dalla particolare condizione del suo comune. Gli basterebbe, ad esempio, trasferirsi da Firenze ad Arezzo per intascare 700 euro in più al mese. O, se volete, per pagare 700 euro in meno di tasse. Oppure potrebbe migrare da Genova a Imperia e risparmiare 5 mila euro l’anno, lasciare Biella per Cuneo e poter contare su 6 mila euro in più l’anno.
L’esito del federalismo all’italiana su chi fa impresa, alla fine, è questo: l’imprenditore romano quest’anno lascerà sul campo oltre 37 mila euro (mille in più dei suoi colleghi fiorentini), contro i 29 mila di un concorrente di Udine, i 32.500 di un milanese, per non parlare dei 28 mila del solito “fortunato” cuneese. Ciascuno, quando tira le somme a fine anno deve guardarsi in casa, in tutti i sensi: non conta solo la bontà del lavoro, le intuizioni, la capacità d’innovare e scoprire nuovi mercati, ma anche - molto più banalmente - le decisioni del sindaco di turno. O, direbbero i sindaci, le scelte dei governi che, tagliando i trasferimenti, li obbligano a inasprire le tasse. Il rapporto causa-effetto è comunque impietoso: là dove le imposte comunali sono cresciute molto, dal 2011 a oggi gli imprenditori sono stati fortemente penalizzati rispetto ai loro concorrenti che lavorano altrove, dove si è comunque calcato la mano ma senza strangolarli.
Andrea Rossi
sabato 23 novembre 2013
La parentopoli che uccide il Paese...
Italia
La parentopoli e il grande deficit
mercoledì 13 novembre 2013
Roma sotto il guano di 4 milioni di storni ...
Italia
Roma, il Comune scivola sul guano di 4 milioni di storni
Tagliati i 100 mila euro stanziati per allontanare gli uccelli
Cadute e molti disagi: si usa l’ombrello anche se non piove
Tagliati i 100 mila euro stanziati per allontanare gli uccelli
Cadute e molti disagi: si usa l’ombrello anche se non piove
Se è un segnale divino per spiegarci come siamo ridotti, forse è un eccesso di zelo. Ma la punizione che su Roma scende dall’alto ha una sua perfezione sferica, e va a posarsi sul selciato nello stridore di quattro milioni di storni che volteggiano sulla capitale, oscurandone il cielo a sprazzi, e recapitandole altrettanti quotidiani milioni di esiti intestinali.
Lungo il fiume, nei giardini pubblici, sui viali alberati, la città è ricoperta di uno strato misto guano e fango, col contributo delle piogge di ieri. Nei giorni scorsi le fitte precipitazioni (quelle organiche) avevano ottenuto il risultato di rendere scivolosi alcuni tratti del Lungotevere fra la Sinagoga e l’Ara Pacis, fino al punto che ieri l’altro alcuni motociclisti sono finiti gambe all’aria, compreso un vigilie urbano che - dicono le cronache locali - è andato a fermarsi con il ginocchio contro un palo della luce. È stato l’infortunio più rimarchevole di sei consecutivi in un pomeriggio solo, se si vuole derubricare a semplice disagio il tuffo nello sterco, e i protagonisti probabilmente obietterebbero.
Ogni anno, di questa stagione, Roma riceve gli storni. Il problema, dicono alla Lipu (Lega protezione uccelli), è che dal disastrato bilancio della capitale di questo disastrato Paese sono stati tagliati i centomila euro che di solito si stanziano per scoraggiare la permanenza dei pennuti. Si potavano i platani del Tevere, perché vi si annidasse un numero limitato di volatili, e con apparecchi audio si riproducevano i versi dei predatori dello storno (il più pericoloso pare sia il falco pellegrino), di modo che lo storno medesimo se la battesse in campagna, dov’è padrone di farne latrina. E però niente, i centomila euro non c’erano, e per tale somma Roma affoga in quello che avete capito.
E quando la metafora non è più tale, vuol dire che le complicazioni sono serie. Dal Comune sostengono che i tagli risalgono all’amministrazione di Gianni Alemanno, e comunque hanno raccattato qualcosa per ripulire le strade e cacciare i sozzoni.
Girare in centro è uno spettacolo unico, come si sarà intuito. I giardini di largo Arenula, a fianco del ministero della Giustizia, paiono la sede centrale degli storni. Sugli alti alberi, in un frastuono infernale e in un andirivieni frenetico, si alternano migliaia di uccelli. La gente che di sotto aspetta l’autobus tiene gli ombrelli aperti anche quando spiove.
Dopo le quattro del pomeriggio la zona è infrequentabile: a proposito di ombrelli, li si prende anche in caso di sole per proteggersi da quell’altra grandinata. Qualcuno sferraglia con vecchie pentole per liberarsi del nemico giusto il tempo di salire in macchina. E che macchine: tempestate da centinaia di proiettili fisiologici, maniglie comprese. Le piste ciclabili che corrono a fianco del Tevere in alcuni punti erano sabbie mobili, prima che la piena ripulisse qualcosa, ma le proteste dell’Associazione BiciRoma, che conta novemila iscritti, sono state vane.
I marciapiedi sono un supplizio, alcuni impraticabili se non con stivali da pescatore, altri meno orridi, ma comunque li si percorre sentendo sotto le suole uno sciaguattìo ripugnante. Per non particolareggiare sul fetore e i seri impedimenti all’equilibrio: si sta attenti a dove si mettono i piedi, e pure le mani, mentre ci si muove in una parabola biblica nella quale sguazziamo persino con agio.
mattia feltri