Cultura
Fortuna, la dea bendata
che dà senso
al mondo fatto a caso
La lettura che Ernesto Ferrero presenta oggi alla Milanesiana
L’ambiguità della buona sorte da Shakespeare alla scienza moderna
La lettura che Ernesto Ferrero presenta oggi alla Milanesiana
L’ambiguità della buona sorte da Shakespeare alla scienza moderna
Il catalogo più autorevole dei colpi e delle frecce che la «Fortuna oltraggiosa» ci riserva viene stilato da Amleto nel più celebre monologo della storia del teatro. Amleto elenca «le frustate e gli spregi del mondo, le ingiustizie degli oppressori, le contumelie dei superbi, gli spasimi dell’amore sprezzato, i ritardi della legge, l’insolenza del potere e gli scherni che il merito paziente subisce dagli indegni». Queste offese sembrano ad Amleto tanto insopportabili da fargli prendere in considerazione l’ipotesi di saldare il conto con un semplice stiletto, non fosse che non sappiamo che cosa ci attende nel paese da cui nessun viaggiatore ritorna.
Quelli che Amleto lamenta sono mali morali prodotti dagli uomini: l’arroganza del potere, le ingiustizie correnti, le pene d’amore, il merito irriso. Non hanno nulla di imprevedibile, e attribuirli ad un’entità malevola e distratta sembra una prova di scarso carattere. Ben altre sono le invenzioni beffarde di cui si compiace la divinità di cui gli uomini d’ogni tempo si sono sempre sentiti lo zimbello. Incostante, dunque femminile, gli occhi coperti da una benda, in bilico su una ruota. «Donna ubriaca e capricciosa», la definisce Cervantes. Già Apuleio lamentava che prodiga sempre i suoi favori ai malvagi e a chi non lo merita. E prima ancora Giobbe aveva aperto una accorata vertenza sindacale con il suo dio.
I colpi del destino oltraggioso (la buona fortuna è sempre degli altri) hanno sempre rappresentato un problema filosofico: perché la vita ha l’arbitrarietà del gioco dei dadi? Perché la virtù è punita? Nel VII canto dell’Inferno Dante, che ben conosce le concezioni degli antichi, chiede lumi a Virgilio, che lo rassicura. Quella che noi chiamiamo Fortuna è un’intelligenza angelica, fedele ministra ed esecutrice della volontà divina, che procede secondo un giudizio che resta sì inconoscibile agli uomini, ma segue un suo disegno preciso. La prudenza umana non può nulla contro il volere della Fortuna, il cui giudizio, dice Virgilio, è «occulto come in erba l’angue», il serpente che si nasconde nell’erba alta.
A partire dal Rinascimento, si fa strada una diversa concezione, che rivendica all’uomo la dignità di plasmare il proprio destino a dispetto di ogni avversità. La fortuna avversa esiste, scrive Machiavelli, è come un’alluvione che allaga campi e sradica alberi, ma le si può opporre una gestione avveduta, quella che oggi chiamiamo prevenzione, allestendo argini, opere idrauliche. Possiamo concedere alla fortuna di determinare una metà del nostro destino. L’altra sta nelle nostre mani, nella nostra «virtù», cioè in un mix di professionalità, determinazione, capacità di previsione e progetto, coraggio. Se, come si dice comunemente e Machiavelli, politicamente ancor più scorretto di Cervantes, ripete, la fortuna è donna, «è necessario, volendola tener sotto, batterla e urtarla». Con la fortuna occorre saper anche giocare d’azzardo, osare al momento giusto: se la Fortuna «come donna, è amica dei giovani», si farà comandare dai più giovani e audaci.
Occorre saper leggere gli eventi e cogliere l’occasione favorevole. Nel Giulio Cesare, Shakespeare fa usare a Bruto una metafora marinara per convincere Cassio che è arrivato il momento di prendere le armi contro Ottavio ed Antonio: «V’è una marea negli affari umani/ tale che, se cogli l’onda, arrivi al successo;/ se invece perdi l’attimo, il viaggio della vita/ si arena in disgrazie e bassifondi./ Su questo mare ora galleggiamo,/dobbiamo profittare delle correnti propizie/ o perdere il nostro carico».
La scienza moderna ci dice che la vita è nata sulla Terra per una serie di congiunzioni uniche e probabilmente irripetibili, che il Caso è il motore primo della vita e poi dell’evoluzione (penso alle tesi sostenute da Jacques Monod in Il caso e la necessità). Sembra quasi la riproposta del modello della dea bendata caro agli antichi. Dai tempi dei prodigiosi processi avvenuti nel brodo primordiale miliardi di anni fa, il Caso bricoleur non ha smesso di inventare combinazioni biologiche sempre nuove, attorcigliando pochi elementi-base nelle doppie eliche del Dna.
Il Caso ama lavorare su quel minimo scarto iniziale che, allargandosi a valanga, può produrre risultati enormemente differenti tra di loro. Tutto quello che gli uomini possono fare è risalire alla piccole cause prime, ai movimenti impercettibili dell’ago degli scambi che riescono a spostare la destinazione di un treno di migliaia di chilometri. Ognuno di noi può raccontare la piccola causa che ha mutato radicalmente l’esistenza sua o dei suoi progenitori. Ogni identità è il prodotto di una serie pressoché infinita di casualità. Ogni identità è fortunosa. È romanzesca.
Uno di questi incredibili scatti dell’ago degli scambi ci è stato raccontato da Primo Levi. Non, si badi, in Se questo è un uomo, ma in un racconto degli ultimi anni, quasi se ne vergognasse, lui che provava appunto la vergogna del sopravissuto. Nel gennaio del 1945, prigioniero ad Auschwitz, Levi ha trovato rifugio nel laboratorio della Buna, la fabbrica di gomma annessa al Lager, in quanto brillante laureato in chimica. È riuscito a evitare i lavori pesanti che ha svolto sino a poco prima all’aperto, ma continua ad avere fame, e cerca sempre di rubare qualcosa di piccolo e di insolito per scambiarlo con pane. Un giorno trova in laboratorio un cassetto pieno di pipette, tubetti di vetro graduati che servono per trasferire liquidi da un recipiente all’altro, e ne riempie una tasca interna della giacca che si era ingegnosamente cucito. Corre da un infermiere polacco che conosceva al Reparto Infettivi, spiegandogli che le pipette potevano servire per analisi chimiche. L’infermiere è poco interessato, dice che quel giorno di pane non ce n’è più, al massimo può dargli un po’ di zuppa. Primo torna nella camerata con una scodella mezza piena. Chi poteva aver avanzato mezza scodella nel regno della fame? Quasi certamente un malato grave. In quelle settimane nel campo s’erano scatenate in forma epidemica difterite e scarlattina.
Auschwitz non era luogo di cautele. La sera Primo divide con il suo fraterno amico Alberto la zuppa sospetta. Pochi giorni dopo si sveglia con la febbre alta e non riesce a deglutire. È scarlattina, e Primo non l’aveva fatta da bambino, al contrario di Alberto. Viene ricoverato in infermeria proprio quando i tedeschi decidono di abbandonare il campo. Da Berlino giunge l’ordine di sopprimere i malati per non lasciare testimoni, ma non c’è più tempo, le guardie fuggono portandosi dietro i prigionieri capaci di camminare. Alberto parte con loro. «Venne a salutarmi, - racconta Levi - e poi partì nella notte e nella neve, con altri sessantamila sventurati, per quella marcia mortale da cui pochi tornarono. Io fui salvato, nel modo più imprevedibile, dall’affare delle pipette rubate, che mi avevano procurato una malattia proprio nel momento in cui, paradossalmente, non poter camminare era una fortuna».
Ernesto Ferrero