ebook di Fulvio Romano

sabato 14 giugno 2014

Nessuno voto a maggioranza schiacciante garantisce onestà e densità del confronto (il PD di Renzi)

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Cultura

premier pronto

allo scontro finale

Sembravano solo slogan buoni per vincere delle elezioni primarie, ma adesso che Matteo Renzi è segretario del Pd da poco più di sei mesi e presidente del Consiglio da poco meno di quattro, forse si capisce meglio cosa si nascondeva dietro l’allarme verso l’«uomo solo al comando» e l’annuncio – al contrario – che era finalmente giunta l’ora di «cambiar verso». Infatti, il conflitto che si è aperto all’interno del Partito democratico – una disputa che per la violenza che la caratterizza sembra davvero uno scontro finale – ha ormai definitivamente assunto un profilo che va molto oltre il dissenso politico o l’obiezione nel merito, per trasformarsi in qualcosa di assai diverso, e che mette in discussione non solo la natura del Pd ma – si potrebbe dire, «filosoficamente» – la questione del rapporto tra consenso e decisione.

Solo così può esser spiegata l’asprezza dello scontro in corso e perfino il frasario di cui si nutre. «Sembra di essere in un regime stalinista» (Mucchetti); «Non diventeremo un partito anarchico» (Renzi); «Non è un bene adottare il metodo delle espulsioni del M5S» (Chiti). L’oggetto del contendere quasi sparisce, e il conflitto si trasferisce su tutt’altro livello: chi assume le decisioni, in nome di quale mandato, che spazio (dignità) hanno le voci in dissenso. Il tema è del tutto nuovo per un partito «assembleare» come il Pd: ma non sfugge che altri movimenti e forze politiche di più recente costituzione (dalla Forza Italia di Berlusconi al M5S di Grillo fino alla Lega versione Bossi) avevano del tutto risolto i quesiti delegando pieni poteri ai rispettivi leader.

Se anche il Partito democratico si stia definitivamente incamminando su quella via e in quella direzione, è presto per dire: appare però evidente – per la natura stessa del Pd e per le tradizioni politiche da cui origina – che la trasformazione da partito «assembleare» a partito del leader è destinata a incontrare opposizioni e resistenze non paragonabili con quelle registrate nei movimenti prima citati. La metamorfosi – se è davvero questo il progetto di Matteo Renzi – non è però impossibile: processi analoghi sono andati avanti in altri Paesi europei (e non solo). E costituisce certamente un precedente in Italia la trasformazione che Bettino Craxi impose nella seconda metà degli Anni 70 ad un Psi perennemente rissoso e ridotto ad una somma di tribù e di correnti.

È uno scontro nel quale ognuna delle parti in causa (il leader e gli oppositori del leader) può accampare delle buone ragioni. Con un’ironia stavolta velata di rammarico, per esempio, ieri Matteo Renzi confidava: «Non pensavo che andare all’estero da presidente del Consiglio fosse così pericoloso... Del resto, non potevo immaginare che prendi il 40% alle elezioni e ti fanno la fronda appena vai fuori. Con il voto di tre settimane fa, i cittadini ci hanno lanciato un segnale forte: vogliono governo e cambiamento, ed è ciò che faremo. Non accetterò la palude: il tempo delle mediazioni è finito».

Analogamente, si può ipotizzare che né Mineo né Chiti immaginassero che opporsi ad aspetti della riforma del bicameralismo perfetto li riducesse a «sabotatori», «disfattisti» e nemici della volontà popolare. Sorte simile era toccata precedentemente (e certamente su altri temi tornerà ad accadere in futuro) a chi aveva manifestato dubbi e perplessità in materia di riforma del mercato del lavoro: il che dovrebbe rendere ancor più chiaro che la durezza dei conflitti (quello presente, quelli passati e quelli futuri) prescinde dal merito delle questioni per andare a investire il tema dei temi, e cioè la possibilità per un leader democratico di decidere in maniera solitaria, pur «mettendoci la faccia» a assumendo in pieno le proprie responsabilità.

Il resto, a dirla tutta, è contorno: e nemmeno particolarmente edificante. Il «cerchio magico fiorentino», l’infedeltà dei gruppi parlamentari, la debolezza – in alcuni casi la pochezza – dei più stretti collaboratori del leader e le accuse di «tradimento» sono armamentario tradizionale applicato ad uno scontro che, per il Pd, non ha davvero nulla di già visto e – appunto – tradizionale. È di questo che l’Assemblea nazionale dei democratici dovrebbe discutere stamane. E discutere davvero. Perché non conta solo, burocraticamente, il numero delle riunioni svolte: contano l’onestà e la densità del confronto. Che non sono sempre risolte attraverso un voto a maggioranza schiacciante.

Federico Geremicca